Cinque

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"Ora mi lancio fuori, ti giuro Gertrude, prendo e mi butto fuori da questo spazio orribile. Sono circondata da macchine del diavolo."
Mi alzai dalla sedia nera e presi a camminare avanti e indietro, mettendomi le mani fra i capelli per calmarmi. Non c'era nessuno per toccarmeli, quindi dovevo fare da sola.

Gertrude smise di lavorare, fece girare la sua sedia e mi seguì con lo sguardo mentre continuavo a fare la mia maratona sul posto.
Potevo sentire i suoi piccoli occhi neri seguirmi con curiosità e divertimento.
Mise le braccia conserte e continuò a guardarmi senza dire nulla.
Tutto ciò che si poteva sentire erano i miei sandali piatti che calpestavano il pavimento marmoreo bianco, nero e grigio.
Mi bloccai e mi voltai verso di lei.
"Ti prego, dii qualcosa" la supplicai avvicinandomi a lei.
Odiavo il silenzio, a meno che non fossi sola ma il silenzio in due era una cosa che non sopportavo, seppur non tentavo mai di costringere una conversazione.
Lei ridacchiò di me e si aggiustò gli occhiali viola e rettangolari sul ponte del naso alla francese.
Amavo ed ero estremamente invidiosa del suo nasino.
Sul volto quadrato non c'era segno di preoccupazione o di agitazione, mi sorrideva divertita, increspando le labbra fini.

"In che mese siamo?" mi chiese.
Feci una smorfia di confusione, "agosto" mi limitai a rispondere, "perch-"
"Quando hai iniziato a imparare a cucire?"
Accavallò le gambe formose coperte dal tessuto fresco di lino.
"Gennaio credo" replicai confusa cercando di capire dove volesse andare.
"Hai mai cucito prima?"
Scossi la testa e poi mi fermai. Oh, capì dove voleva arrivare.
"È stressante essere così...chiavica in qualcosa" farfugliai guardando le dita dei miei piedi scoperti in quei sandali alla francescana.
"Sette mesi, tra gennaio e agosto" mi rispose, "due dei quali li hai passati nella sede americana per la collaborazione con North Face. Quindi cinque" continuava a guardarmi con i suoi occhietti e mi sentì velocemente stupida, "e oh, bisogna contare anche le svariate settimane in cui qui non ti ha vista nessuno perché eri oberata dal lavoro" continuò lei, "quindi direi che sono tre mesi."
"Non vuole dire null-" feci per rispondere ma mi bloccò ancora.
"Ci vuole tempo, sai?" mise un braccio sopra il piano bianco di fianco a lei, "a imparare qualsiasi cosa ci vuole tempo ma per fare quello che facciamo noi qui ci vuole molto tempo."
Io annuì, "lo so ma-"
Ancora mi fermò.
"Sai a che età ho imparato a cucire?"
Scossi la testa.
Menomale che non c'era nessuno a quell'ora o mi sarei sentita ancora più stupida.
"A dodici anni, mi insegnò mia nonna" rispose continuando a guardarmi in quel modo che mi azzerava. "Credi che a tredici io ero già in grado di fare quello che sto facendo adesso?"
Scossi di nuovo la testa.
"Secondo la tua concezione chiunque può venire qui. Due mesi di pratica e sei pronto per lavorare nell'alta moda."
"Io non-"
"Eppure non è così. Ci vuole tempo cara, ci vuole così tanto tempo e dedizione. Ma in tutte le cose è così. Se vuoi fare il tuo lavoro bene, devi studiare, devi provare e riprovare, devi spenderci del tempo Eli. Sei troppo abituata al tutto e subito, ma non funziona così sempre. Ci sono delle cose che richiedono tempo e dedizione."
Ero stupida.
"Capisco che tu sia frustata ma non riuscirai a cucire il velluto dopo una volta che lo hai fra le mani perché è un tessuto che richiede studio, precisione e pazienza. Ti scivola fra le mani se non sai come va tenuto e trattato.
Se vuoi farti una t-shirt di poliestere ok, saresti in grado. Magari uscirebbe fuori un po' storta e con i segni delle cuciture, ma saresti in grado.
Se è questo quello che vuoi, fai le cose così."
Terza volta che scossi la testa.
"Ci vuole tempo eli. È la cosa più importante il tempo. E le cose diventano importanti quando ci dedichi tanto tempo."
Mi sorrise.
"Per il tuo lavoro hai studiato anni e sei brava in quello che fai e sai perché? Perché ci hai dedicato del tempo."
Annuì questa volta e sospirai. Misi la schiena dritta e mi avvicinai di più a Gertrude.
Ci vuole tempo.
"Ti posso abbracciare?" le chiesi.
Scosse la testa, "torna a lavorare che voglio andare a casa."
"Sì capo."

Agosto a Milano era meraviglioso.
Non si respirava grazie al caldo umido e ai 40 gradi Fahrenheit all'ombra, tutti erano in vacanza e i palazzoni trattenevano l'afa come in una busta di plastica.
Un'oasi sul globo terrestre. Insieme alla pianura padana.

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