Tredici

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La prima volta che ho scopato la ricordo a tratti.
O meglio, io credo di ricordarmela perfettamente ma ho scoperto da poco che il nostro cervello ci mente continuamente perché è programmato per essere efficiente e riempire dei buchi narrativi.
La mia prima volta, se devo essere onesta con me stessa, è stata un po' un'esperienza di cui, ripensandoci più in là, sarebbe stato meglio farne a meno.

Ricordavo solo le parti belle, quelle più rosee e più passionali.
Sì aveva fatto male ma così poco e presto il dolore era stato rimpiazzato da un fortissimo piacere.
Peccato che mi ero dimenticata del particolare in cui lui prima mi dice di non volerlo fare con me per poi penetrarmi senza avviso.
Però non era stato rude, non estremamente almeno.
E ricordo che si era fermato quando gli avevo detto che mi faceva male. Sì, si era fermato giusto qualche secondo per poi riprendere perché a detta sua sarebbe passata prima se io mi fossi abituata a lui e ai suoi movimenti.

Il problema è che non ricordo bene fino a che punto fosse mia la colpa o sua. Nonostante tutto alla fine sia andato bene e io abbia provato piacere, fino a dove mi sono spinta io? Fino a dove mi andava bene coscientemente, perché onestamente non ricordo e non riesco a tornare con la mente a quel momento e a riprodurlo nel modo più oggettivo possibile. Ormai il mio cervello vuole dipingere quei attimi e lo fa nella sua maniera e non so quanto sia quella più veritiera possibile.
Poi la verità non è che esista proprio del tutto, quindi mi piace pensare alle cose nella maniera in cui mi feriscono di meno.

Ho accettato di aver provato piacere e allo stesso tempo di aver dato un po' troppo di me, come mi capita spesso, per accontentare qualcuno, per piacere.

Però ero sicura che in questo caso, con Nicolò, il mio cervello stesse ricevendo ogni singola particella di piacere e di soddisfazione nella maniera più onesta e presente che esistesse.

Ricambiò il bacio in modo passionale, mi strinse per i fianchi e mi guidò fino al divano, sedendosi e facendomi sedere su di lui.
Ci scambiammo baci umidi, palpeggiamenti e ansimi.
Le sue mani sul mio sedere, io che mi strusciavo contro di lui per fargli sentire tutta la mia voglia e fargli capire, se la cosa ancora non fosse totalmente chiara, che io lo volevo quanto lui voleva me.
Io mi muovevo, lui mi seguiva o lui dominava e guidava i movimenti con le mani sul mio fondoschiena.
Fra un lungo bacio e l'altro, ci fermammo qualche secondo per prendere respiro e lui abbassò la testa per lasciarmi umidi baci dentro lo scollo della t-shirt nera che indossavo.
"Andiamo in camera?"

Quella domanda rese tutto più reale, nonostante già lo fosse, le parole dette ad alta voce mi ricordavano che stavo vivendo, che era vero, e tutto prendeva un'altra piega quando si esplicitavano anche i gesti e le azioni.

Un secondo, forse, in silenzio e poi annuì, "sì" bisbigliai con la voce rotta dall'affanno.

Si alzò, con me sopra di lui e quando fu in piedi, io scesi per non pesargli addosso e mi lasciai guidare oltre le scale che portavano al primo piano.
Non feci in tempo a guardarmi intorno, a studiare la casa con le pareti gialline e piene di foto d'infanzia, che lui aprì la prima porta in legno alla nostra destra, fare qualche passo e spingermi delicatamente sul letto con la coperta fiorita.
Mi sorrise e mi guardò dall'alto.
"Sei bella da togliere il fiato."
Gli sorrisi anche io.
Gli sorrisi nonostante avessi il pensiero che quella fosse la camera dei suoi, dato che aveva un letto matrimoniale, delle coperte fiorite e un comodino quasi ricoperto da creme da notte e tester di profumi a tema lago di Como, che ero sicura non fosse l'odore di Nicolò.
"Vieni qui con me?" Gli chiesi, guardandolo dal basso. Era ancora davanti a me, in piedi e fermo a guardarmi.
Scosse la testa, "imprimo questo istante nella mia testa."
Sorrisi ancora di più e alzai le dita in segno di pace, "se vuoi puoi fare una foto. Sono in posa da selfie."
Scoppiò a ridere e venne su di me, tenendosi sugli avambracci per non pesarmi addosso.

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