Dieci

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Mi alzai alle sei del mattino.
Ero andata a letto alle tre.
Ero in ferie, credo fosse illegale dormire tre ore e alzarsi alle sei del mattino durante la prima settimana di agosto nonché la mia settimane di ferie.
Orribile.
Un incubo.

Feci in tempo giusto ad alzarmi dal letto, fare un giro di ispezione della casa fino al bagno, fare la pipì mattutina che mi suonò il citofono.
Barcollai fino al citofono bianco e guardai dalla telecamera Nicolò Barella che si guardava intorno con uno zaino in mano.
Schiacciai il pulsante per parlare, "cazzo fai qui?"
Lo vidi sorridermi dalla telecamera mentre faceva ciao ciao con la manina, "te l'ho detto che venivo."
Mi scappò una risatina, "è la fottuta alba, cazzo sei un vampiro?."
"Sei più scurrile al mattino, me ne ero dimenticato."
"Ti sei dimenticato anche le buone maniere" borbottai. Tipo non presentarsi a casa degli altri alle sei e mezza della mattina di un qualsiasi lunedì di ferie.
Non volevo vedere nessuno di lunedì ma mi toccava di solito perché il lsvoro non mi permetteva di stare da sola in una bolla di epatia e asocialità ma le ferie erano esattamente per quello che esistevano e mi stava rovinando le mie giornate felici.

Gli aprì comunque il portone e lasciai socchiusa la porta del mio appartamento per farlo entrare, così da gettarmi sul mio divano con tutta la stanchezza e la spossatezza che avevo nel corpo, insabbiandomi fra i cuscini beige e il divano sabbia.
Il divano era la parte migliore del mio appartamento, era bello, pieno di cuscini e forse sfondato dal mio peso ma la cosa lo rendeva ancora più comodo e adatto alle mie natiche.

La porta si chiuse e non mi sforzai nemmeno per girarmi a guardare dato che sapevo fosse Nicolò, lo capì anche dal modo in cui lanciò il suo zaino per terra come se fosse a casa sua.
Si tolse le scarpe sulla soglia e poi venne a grande falciate per sedersi come un elefante sul mio divano, vicino ai miei piedi.
Mi lanciò un cuscino dritto sulla faccia, "ciao eh."
Alzai un braccio e poi lasciai di nuovo cadere l'arto oltre il mio corpo, come una mummia stesa.
"Facciamo colazione?" gli domandai. Non avevo ancora mangiato, ero ancora nel pigiama giallo, struccata, con la coda della notte prima e il viso distrutto dalla stanchezza.
"Io ho già mangiato ma sì, alzati" passò un secondo, forse, prima che concluse con: "e cammina, Lazzaro."
Mi tolsi il cuscino dalla faccia e mi rotolai a terra, letteralmente, per poi raccogliermi e tirarmi su con tutta la forza che avevo in corpo mentre Nicolò seduto mi guardava divertito.
"Sei sempre così aggraziata o-"
Una volta in piedi lo fissai con lo sguardo serio e alzai l'indice verso di lui, "non dire niente."
Soppresse una risata e alzò le mani in segno di difesa mentre si alzava dal mio divano per auto dirigersi in cucina.

Mi sedetti sullo sgabello davanti all'isola a striature bianche e guardai Nicolò destreggiarsi fra la cucina mentre prendeva il necessario per fare colazione.
Voleva pensarci lui.

Mi piazzò davanti alla faccia una tazza di latte caldo insieme alla scatola di cereali della Kellogs, fece un gesto con le mani per presentarmi la colazione e "et voilà" pronunciò.
Indicai la tazza e guardai il mio amico che si sedette di fronte a me con un'altra tazza.
"Dieci minuti e hai riscaldato solo del latte?"
"Otto dei quali li ho passati a cercare le cose dato che le nascondi. Sei in casa da sola perché nascondere le cose?"
Mi versai i cereali nel latte e feci spallucce, "io ci abito, so dove sono le cose. Le sistemo tramite un complesso sistema organizzativo."
Mangiò un cucchiaio di cereali, "alla cazzo di cane quindi."
Fondamentale era vero ma non volevo dargli la soddisfazione di sapere che fosse così, quindi mi limitai a infilarmi il cucchiaio di cereali in bocca.
Riuscì a mangiare qualche cucchiaiata di cereali in silenzio prima di riuscire a capire che Nicolò mangiava e mi fissava, anche lui in silenzio ma molto più sveglio e attivo di me.
Misi il cucchiaio nella tazza.
"Com'è che sei a casa mia?" non perché mi dispiacesse ma perché non aveva senso.
Aveva una moglie, vivevano anche loro a Milano e nonostante questo non ci vedevamo quasi mai e comunque non da soli, non in casa mia.
Poggiò anche lui il cucchiaio.
"Franci è andata dai suoi oggi perché poi deve tornare a fare una campagna pubblicitaria all'estero e per un po' non potrà vederli."
Annuì.
"Cosa le hai detto?"
Era orribile il pensiero che bisognasse mentire anche solo per stare insieme ma poi non stavamo solo e semplicemente insieme, finiva che ci strusciavamo l'uno contro l'altro e forse era meglio mentire o forse era meglio proprio non vederci.
Ma non ero disposta a farlo.
"Che tornavo a Milano" si passò una mano sul tessuto dei pantaloncini da basket che indossava, "che poi è la realtà. Un po' omessa, ma la realtà."
Annuì di nuovo.
Potevamo non fare nulla, semplicemente stare insieme come prima, ridere e scherzare, poi offenderci e raccontarci qualcosa di privato ma lo sapevo che in quel momento non eravamo più come l'anno prima, eravamo più consapevoli e ci eravamo provati, l'uno con l'altro e sembrava stessimo bene.
"Voglio solo passare del tempo con te" sembrò leggermi nel pensiero, "non sto pensando a nient'altro che non sia te ora."
Mi ammutolì e per quella che doveva essere la ventesima volta in quaranta minuti, annuì di nuovo.
Cosa doveva significare? Nel senso più carino e puro oppure qualcosa di più spinto e meno adatto ai minori di diciotto anni?
"In parole povere" parlai piano, poggiando i gomiti sul piano, "che vuole dire? Cioè anche io voglio passare del tempo con te ma che dobbiamo fare? Nel senso, non dobbiamo fare niente ma non è sbagliato? Stare qui dico, insieme" gesticolai nervosamente aprendo le mani, indicando ogni tanto lui, ogni tanto me.
"probabilmente sì ma lo sapevi che i pinguini non sanno volare?"
Inclinai la testa confusa. Parlava con molta serietà e senza fare un minimo accenno di grinza sul suo visetto perfetto.
Assottigliai gli occhi, "lo sanno tutti" risposi, penso fosse una di quelle cose che impari quando sei alle elementari che fai le varie distinzioni fra le specie viventi e scopri che sono fra i volatili stronzi che pur avendo le ali non volano. Però nuotano da Dio.
"I cavalli non sanno vomitare."
Lo guardai qualche secondo in religioso silenzio per poi scoppiare a ridere, "questa non la sapevo".
Si alzò in piedi, diede una pacca sulla sua stessa spalla e batté le mani vittorioso.
Prese la sua tazza, la mise nel lavandino e si andò a buttare sul mio divano con un sorriso sornione stampato sulla faccia.
Alzò le braccia verso il cielo, ergo il mio soffitto bianco e mi fissò con gli occhietti felici.
"Dopo due anni e mezzo" commentò, la voce piuttosto scanzonata e allegra.
Mi alzai anche io per mettere nel lavello la tazza che avrei lavato probabilmente fra un paio di ore.
"Dopo due anni e mezzo ho ristabilito le gerarchie."
Mi sedetti anche io sul divano, in un angolo vicino al poggiolo e fra i dodici cuscini che mi piaceva impilare e spalmarmi addosso.
"Non sei più intelligente di me" mi difesi. Non lo era solo perché sapeva una cosa che probabilmente aveva cercato su Google come: curiosità da dire agli amici per sorprenderli.
Era stato furbo a fare una ricerca online ma niente di più.
"La mia conoscenza viene dallo studio" rimboccai io, troppo presa dal mio autodifendermi per vederlo sgusciare più vicino a me, prendermi la caviglia fra la sua mano e tirarmi come un pezzo di coscia di maiale verso di lui.
Finì con le gambe distese sopra le sue e il busto sopra al divano con la faccia rivolta all'insù.
"La mia forza dal mio spirito."
Alzai di poco la testa per prendere un cuscino e lanciarglielo in faccia.

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