Legami indissolubili

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Lo venni a sapere due mesi dopo, come se fosse una semplice voce di corridoio. Lo sentii dire da due ragazze del primo anno, mentre sistemavo dei libri nell'armadietto.
Quando pronunciò quelle parole, il mio mondo, solido come una roccia fino ad allora, mi crollò addosso, seppellendomi come se fossero state un mare di pietre pesanti.
Per un momento non collegavo più niente, la spina era staccata e tutto ciò che riuscivo a vedere era il suo volto coperto dal fumo delle sigarette che fumava sempre.
Poi mi ripresi, posai i libri e probabilmente non chiusi neanche l'armadietto.
Nessuno mi vide uscire, e se anche mi avessero visto non mi sarei di certo fermata.
Dalla tasca dello zaino presi una sigaretta e la finii in pochi tiri.
Presi il primo autobus, direzione Ospedale.


I corridoi puzzavano di morte, di dolore, di lacrime e di medicine.
Quando chiesi il numero della camera, l'infermiera mi disse che l'orario delle visite era finito da un pezzo.
Era sulla quarantina, e cercava di nasconderlo con trucco pesante e capelli tinti. Era abbastanza tozza, e non aveva un bell'aspetto, ma sarebbe diventata, nel giro di poche settimane, una mia amica.
Presi un'altra sigaretta, che Terry butto via. Era questo il suo nome, o almeno così vi era scritto sul cartellino, Terry Vanaughen.

Ci impiegai venti minuti per convincerla, dopodiché si impietosì e mi lasciò entrare di nascosto, mentre incrociava le dita affinché il capo non la vedesse.

Quando entrai nel reparto mi bloccai. Le mani mi tremavano, anche le gambe, dalla fronte scendeva sudore freddo, e la bocca era secca. Era paura.

La camera era la 172.
124,
146,
160,
170.
La prossima sarebbe stata la sua stanza.

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