15. Sbagliata

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Il silenzio era terribile e amplificava i lievi fruscii dei piedi nudi che, svelti, procedevano nel sottobosco. Nubi basse coprivano la luce del giorno, ingrigendo l'atmosfera; persino gli uccelli parevano non aver voglia di cantare e il maltempo dei giorni passati aveva lasciato ovunque l'odore di bagnato e umidità.

I sensi di Cinque si soffermarono a lungo su ciò che la circondava, consapevoli che da lì a poco non avrebbe sentito più nulla.

Quella era la processione per la sua esecuzione.

Uno guidava il gruppo e non aveva più aperto bocca da quando Madre aveva dato il suo ordine. Otto le aveva seguite e poco dopo essere partite erano arrivate anche Tre e Quindici. Cinque stava in mezzo a tutte, le mani unite e legate insieme dal legno di Madre, impossibile da manovrare per loro.

Ogni tanto Tre la guardava seria in viso, ma per la maggior parte del tempo teneva gli occhi di resina fissi alla terra, stringendo la cesta di rami intrecciati che si era portata dietro.

Perché era voluta venire? L'avevano forse obbligata per potersi far perdonare, per dimostrare che lei non era una sua complice?

Nessuno diceva nulla e quell'incedere in fila aveva ormai assunto tratti surreali.

Cinque avrebbe dovuto tenere gli occhi bassi e recarsi verso la fine con un minimo di dignità, invece non riusciva a smettere di guardare le sorelle a turno immaginando che forse troppo presto l'avrebbero raggiunta nella morte.

Garrett non era riuscito a convincere gli uomini e lei aveva fallito nel persuadere Madre. Che quello stupido scontro fosse inevitabile? Davvero era così difficile mettersi nella percezione degli altri e comprendere quanto tutto quell'odio fosse deleterio?

Morte, sangue, fuoco... Cinque non sarebbe più stata presente per assistere alla disfatta di tutto ciò a cui teneva.

Forse... forse avrebbe dovuto davvero scappare col mezzo elfo e vivere felice.

Cinque osservò Tre intenta a fissarsi i piedi mentre avanzava e il nodo che le stringeva la gola si fece più stretto, inaridendole la bocca mentre gli occhi minacciavano di riempirsi d'acqua. Piangere non sarebbe servito a niente, solo a mostrarsi colpevole di qualcosa che non aveva mai fatto. La stavano portando al suo larice per ucciderla, troppo sorde per sentire la cruda verità che Cinque non avrebbe mai smesso di urlare.

Uccidendo lei, avrebbero compiuto il primo passo per distruggere ogni cosa.

A cosa valeva parlare ancora? Uno non l'aveva capita e Madre aveva ormai sentenziato. Cinque avrebbe potuto provare a scappare, ma a che scopo? Se anche ci fosse riuscita – e ne dubitava – avrebbe dovuto assistere inerme allo scontro del giorno dopo e patire le sofferenze di morte su morte. Tanto valeva farla finita subito, andando incontro a un destino di certo meno violento rispetto alle sorelle.

Entrando nel piccolo spiazzo erboso davanti al grande larice che l'aveva generata, nella mente di Cinque si formò l'immagine del viso di Garrett. Lei gli aveva detto di presentarsi comunque alla battaglia, ma cosa sarebbe successo, poi? Lui non l'avrebbe vista, forse avrebbe provato a parlare, forse sarebbe morto prima degli altri, trovandosi in testa al gruppo.

Troppo impegnata a impedire di essere sopraffatta dal dolore che le attanagliava il cuore, Cinque quasi non si accorse che Uno si era girata e le aveva afferrato un braccio, conducendola verso il bozzolo aperto che era stato la sua culla diciotto anni prima. Gli aghi ingialliti dall'autunno facevano sembrare il tronco ancora più scuro e le radici sporgenti contenenti le enormi foglie dure e secche del bozzolo le urlarono in testa un macabro invito.

Lì Cinque era nata e lì sarebbe morta.

«Entra, sorella.»

Uno spezzò il silenzio e attese ferma davanti a lei; ora che Cinque poteva guardarla in faccia e non più di schiena, il rendersi conto di quanto il suo viso fosse tirato le fece male. La sorella maggiore era seria, cupa, gli angoli delle carnose labbra rivolti alla terra e i suoi occhi non erano mai stati tanto spenti, incapaci di ricambiare il suo sguardo.

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