2:Minhee

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                                  ORE 14:55

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                                  ORE 14:55

«qSignore, capisco la sua seccatura, ma non sono responsabile delle condizioni atmosferiche. Se vuole protestare contro qualcuno, provi con Dio». Ormai ho sentito la signora al cancello d'imbarco propinare varie versioni della stessa battuta a quattro passeggeri diversi, e continuo a sperare che il mio cervello abbia deciso di prendersi gioco di me facendomi partorire un incubo in cui la notizia di una possibile bufera ha gettato nel caos l'aeroporto jfk.
Quando arrivo in testa alla fila pianto la mano sul banco come per sorreggermi, do il numero del mio volo nella folle speranza che il mio aereo abbia delle ruote speciali, con gomme dotate di una tecnologia aliena e la presa necessaria a sfrecciare sulla pista e a portarmi via, lontano da qui, non importa quanto sia alta la neve. La signora Cancello d'Imbarco dà un'occhiata al computer. «Bene, tesoro, la buona notizia è che il tuo aereo è qui al jfk. La cattiva è che in realtà non può decollare a causa di...». Quindi si lancia in una spiegazione, ma io non la ascolto perché mi sembra che la mia testa sia stata spinta sott'acqua, nelle orecchie il gorgoglio strano che all'improvviso fa apparire ogni cosa molto lontana. Il mio volo di ritorno è stato cancellato. Sono bloccata qui. «E quand'è il prossimo volo? Non potete spostarmi su un altro aereo? Cioè, si tratta di un volo notturno, no? Per me non fa alcuna differenza se atterro alle otto del mattino invece che alle sei... tanto non dormirò comunque. Non dormo mai sugli aerei, sono troppo eccitata quando viaggio». Capisco di stare divagando, e so anche perché: finché parlo non mi metterò a piangere. Non posso essere bloccata qui, non è possibile! Ho bisogno di tornare a casa. I miei genitori mi stanno aspettando. In realtà probabilmente mio padre starà controllando lo stato del mio volo proprio in questo istante, e quando vedrà che è stato cancellato si incavolerà a morte. «Signorina, mi dispiace tanto», dice la signora Cancello d'Imbarco, facendo una smorfia come se le si spezzasse il cuore a dover dare una cattiva notizia a una sconosciuta. Le ho visto fare la stessa faccia già due volte. «Ma con questo tempo ci sono delle lunghe liste d'attesa per tutti i voli diretti a Londra... È molto improbabile che stasera riesca a salire su un aereo. Mi dispiace tanto». Mi indirizza verso un banco delle informazioni, dove un'altra signora tutta sorrisi fissa lo schermo di un computer per quelli che mi sembrano cinque minuti buoni, poi mi informa che il primo volo disponibile non partirà prima delle nove e mezza... del mattino. Non sarò con la mia famiglia la mattina di Natale. Sarò qui a New York... la città che amo ma da cui voglio andare via.Sono passati chissà quanti minuti e sto vagando verso il terminal principale. Ho lasciato la valigia al deposito bagagli e appeso alla spalla sinistra ho il borsone, dentro solo il thriller che mi ha comprato il Fricchettone Figo e un coupon che mi ha dato la compagnia aerea. È per l'Hotel Ramada, dove a quanto pare dovrò rintanarmi per passare la vigilia di Natale... da sola. Non sono mai stata in albergo da sola prima d'ora, e a tutt'a un tratto non mi sento affatto all'altezza della situazione. E se l'albergo non mi fa entrare senza un adulto? E se mi ritrovassi completamente bloccata, da una parte un hotel che non mi fa entrare e dall'altra un aeroporto che non mi fa uscire? È la cosa peggiore che mi sia mai successa.
«Andrà tutto bene, amore. Come sempre». Sono al cellulare e sto parlando con mamma. Vorrei che si facesse prendere dal panico come me, ma lei è sempre amabile e tranquilla. In realtà è proprio famosa per questo. Tutti la chiamano "Flemmanie" – ho sempre pensato che non esista un gioco di parole con Melanie più penoso, ma adesso, in questo momento, mi sembra una delle cose più divertenti che abbia mai sentito. Mi abbandono su una panchina coprendomi la faccia con la mano libera. Non mi aiuta molto a sentirmi meglio, ma per un attimo l'aeroporto sembra un po' più lontano, come se fosse meno soffocante. Mamma inizia a dire qualcosa, ma la sua voce viene sovrastata da quella di Emma, e io immagino mia sorella di cinque anni che combatte con le unghie e con i denti per afferrare il telefono di casa. «Mammina, mammina, voglio parlare con Hee! Ti pregoooo!». Quando era piccola, Emma non riusciva mai a pronunciare Minhee, pertanto alla fine si è accontentata di Hee. «Non ora, Em», dice mamma. Poi, rivolta a me: «Non puoi tornare dai Lawrence?» «No», rispondo. «Passeranno il Natale nel Vermont con dei parenti. Ci andavano direttamente dopo avermi lasciata all'aeroporto». «Andrà tutto bene, amore», mi ripete. «Puoi andare in albergo dove almeno starai al caldo e al sicuro, no? Cosa potresti chiedere di più?». Mi asciugo gli occhi e scosto la bocca dal cellulare per non farle sentire che tiro su con il naso. Potrei chiedere molto di più di una calda stanza d'albergo; per esempio un volo che mi porti via da questa città di sofferenza. Niente male come "di più", eh? Dio, perché la mia vita ha deciso non solo di mettermi al tappeto, ma anche di sputarmi in faccia e correre via ridendo? Mamma mi dice che festeggeremo il Natale a Santo Stefano e che tutta la famiglia mi vuole bene e, per qualche motivo, quest'ultima frase mi stringe un nodo alla gola. In realtà non siamo mai stati una famiglia particolarmente affettuosa, e il fatto che mamma senta il bisogno di dire qualcosa è la prova, per me, che mi trovo proprio in una situazione di merda prima di attaccare, mamma dice: «Voglio che mi ascolti, va bene, Minhee? Mi stai ascoltando?» «Sì». «Lo so che ti sembra tutto orribile e lo capisco, ma non voglio che tu te ne stia lì ad arrabbiarti e piangerti addosso. Sì, è una situazione spiacevole, ma tutto sommato potrebbe essere ancora più brutta, no? C'è sempre qualcuno che sta peggio di te, amore». Le rispondo che capisco, ed è così, ma so anche che mi ci vorrà un po' per convincermi davvero delle sue parole. Terminiamo la telefonata e io rimetto il cellulare nel borsone. Sì, quasi tutto il peso che avverto sulla coscia appartiene al thriller che mi ha comprato il Fricchettone Figo, ma la cosa che sembra pesare di più è il coupon per una stanza d'albergo che dovrei occupare da sola, e al pensiero mi sento un po' nervosa. Mamma mi ha tranquillizzata anche su questo, sostenendo che se posso volare in America da sola posso anche sopravvivere a una notte in albergo. Ha ragione; persino la Minhee inglese sarebbe in grado di cavarsela. Ma so che la stanza sarà insulsa e spartana, e probabilmente beige. Mi deprimo al solo pensiero, e sicuramente lì dentro non potrò fare altro che mettermi a pensare a Jimin, alle cose orribili che mi ha detto e all'espressione che aveva mentre parlava, come se spiegarmi il motivo per cui mi stava scaricando fosse un'enorme seccatura o una cosa del genere. Mi metterò a pensare a quanto è stronzo e mi sentirò una completa fallita per rimpiangere di non avergli fatto provare passione, o qualunque cosa lo faccia sentire superattratto dalla ragazza con cui sta. Non merita le lacrime che mi ha fatto versare, eppure inizio a pensare che chiamarlo e chiedergli una specie di time out – ma solo per metà giornata così che non debba stare in una camera d'albergo a pensare a lui – non sia l'idea più folle e disperata che abbia mai avuto. Ecco dove mi ritrovo la vigilia di Natale, dopo il semestre disastroso a New York: da sola in aeroporto, senza nessuna possibilità di tornare a casa fino a domani, e l'unica cosa che mi appartiene è un thriller da quattro soldi su un tizio di nome Donny che, per motivi che mi interessano sempre di meno, "se l'è cercata". Frugo nel borsone per prendere prendere il coupon dell'albergo e controllare di nuovo l'indirizzo, e dopo averlo trovato, vedo non la copertina di Ritorsione, ma... Dimentica il tuo ex in dieci semplici step! Il maledetto libro motivazionale! Il Fricchettone Figo deve essersi distratto alla cassa. Vedere il libro subito dopo aver pensato per un attimo di chiedere l'aiuto di Jimin mi fa ribollire il sangue, allungo la mano nel borsone e afferro il libro scagliandolo di lato. È solo nel momento in cui lo getto via che mi rendo conto di non essere sola sulla panchina. Seduto accanto a me c'è qualcuno dall'aspetto stranamente familiare: un ragazzo più o meno della mia età, abbastanza alto, con i capelli scuri tagliati corti e indosso un giubbotto marrone su una camicia a quadri gialla e crema... non proprio un abbinamento disastroso, ma quei vestiti insieme non stanno bene. È tutto curvo, in grembo ha una dozzina di rose rosse e uno zaino rosso fra i piedi, ed è così distratto da non notare che il mio regalo accidentale – pagato dal tipo con cui la sua ragazza è letteralmente fuggita via – gli rimbalza sulle scarpe da trekking consumate. Mi scuso comunque chinandomi per raccogliere il libro. Dovrei gettarlo nel bidone della spazzatura più vicino, ma per qualche motivo me lo stringo al petto. La reazione del ragazzo arriva a scoppio ritardato, come se la mia voce non stesse viaggiando alla velocità del suono. Si gira e mi guarda con occhi vacui, e all'improvviso capisco a cosa si riferiva mamma. Qualcuno che sta peggio di me mi è seduto proprio accanto. Okay, magari al momento sta peggio di me solo perché è stato scaricato quasi un minuto fa, letteralmente, ma non importa. Io me ne sarei accorta se un libro mi avesse colpito un piede. O almeno credo. Lui si volta e torna a fissare il vuoto. Sono davvero brava ad aiutare chi sta peggio di me, eh? «Mi chiamo Minhee», gli dico afferrando la sua mano e stringendola. «E tu l'hai scampata bella». Il poveraccio si limita ad abbassare lo sguardo sulle nostre dita come se quella fosse la sua prima stretta di mano, poi mi fissa con aria confusa. Complimenti, Minhee; mentre veniva scaricato, prima, di certo non si sarà accorto dell'inglese impicciona lì accanto.
Mi spiego meglio: «Ehm, prima ti ho visto... con la tua ragazza». Abbassa gli occhi sulle rose. «Già... dovevo immaginare che il nostro spettacolino avrebbe attirato l'attenzione». Almeno sta parlando, e quasi scoppio a ridere quando mi rendo conto di non avere la più pallida idea di come proseguire; lui sta peggio di me, ma di sicuro oggi non riuscirò a guarire il suo cuore spezzato, giusto? Tra l'altro è possibile che al momento dal mio non sgorghi più sangue, e probabilmente dipende dal fatto che non ne ho più da versare dopo quello che mi ha fatto Jimin. «Come ti chiami?»
«Yoongi», risponde lui rivolto alle rose. «Ciao, Yoongi. Fidati di me: l'hai scampata bella. Lei è... una da cui stare alla larga».
«Non la conosci». «Ho visto abbastanza da capire che non vale la pena perdere tempo con una ragazza che ti pianterebbe alla vigilia di Natale per il primo bellone che passa, letteralmente».Yoongi si gira appena verso di me con gli occhi spalancati, indice di serietà. «Tu non sai quello che è successo fra di noi, okay? Maya non è un'ochetta superficiale che se ne va con il primo figo che le fa girare la testa». Sembra convinto. Ma, riguardo alla seconda parte della frase, per come la vedo io, si sbaglia di grosso. «Lei è solo... solo... probabilmente non è riuscita a gestire bene questa cosa della relazione a distanza. È stata via per tutto il semestre, capito? Ha appena iniziato il college, per lei è tutto nuovo... è ovvio che si senta confusa». Lo dice con convinzione. Ma io e il ragazzo con cui è scappata abbiamo passato un po' di tempo insieme, e lui sembrava un vero Segaiolo di Williamsburg; ciò significa che viene proprio da Williamsburg (o quella zona lì), quindi lei era tanto lontana da lui quanto da Yoongi. Ma non dico niente. Non ce n'è bisogno, perché Yoongi si prende la faccia tra le mani e si appoggia contro lo schienale della sedia. Serra i pugni e li abbandona sulle rose indesiderate. «No, hai ragione», dice alla fine. Per un istante mi chiedo se stia per piangere, ma lui fa un respiro profondo e scuote la testa. «Ha fatto una bastardata. E la cosa folle è che, se non fossi venuto per farle una sorpresa, non avrei saputo niente di quello che stava succedendo». Avverto l'impulso di allungare la mano e stringergli il braccio, ma mi trattengo e mi limito a dire: «Dovresti andare a casa. Guarda un film stupido con la tua famiglia, basta che ti distragga. Qualunque fosse il Natale che avevi in mente di passare stasera, non rinunciarci». «Non posso andare a casa», confessa lui alle rose. «Ho detto ai miei che avrei trascorso il Natale con Maya e la sua famiglia... Ho pensato che se le avessi fatto una sorpresa lei...». Scuote la testa. «Lascia perdere. È solo... stasera non voglio andare a casa». Si accorge che lo sto guardando accigliata. «Che c'è?». Immagino quale sia l'espressione che devo avere adesso, la faccia di qualcuno che sta pensando: "Poverino". «Niente», rispondo ad Yoongi. «Solo... un po' capisco come ti senti. Io e il mio ragazzo ci siamo lasciati... circa due settimane fa. Cioè quattordici gior...». «So quanti giorni ci sono in due settimane», dice lui. «Scusa. Comunque, qualsiasi sia il problema con la tua famiglia, superalo. È Natale e puoi passarlo con loro. Potrebbe andarti peggio... potresti trascorrere la vigilia di Natale dal Ramada». Fa una smorfia comprensiva, poi si acciglia guardandomi in grembo. Per un secondo credo che mi stia fissando con aria maliziosa e sto per emettere un borbottio disgustato, ma poi capisco che sta solo guardando il libro ancora fra le mie mani. «Se fossi in te lo butterei nella spazzatura, quando te ne vai». «Era nella classifica dei libri più venduti», dico. «Evidentemente per qualcuno funziona». «Dieci semplici step? Se fosse un solo step potrei anche fidarmi. Dieci mi sembrano una specie di imbroglio». Abbasso lo sguardo sul libro e me lo rigiro fra le mani. Nell'angolo in basso a destra c'è una piccola fotografia dell'autrice, la dottoressa Susannah Lynch. È una donna di mezza età, con un abbigliamento che sembra rimasto incastrato a metà strada tra l'hippie e lo sportivo chic; la sua faccia simpatica e comprensiva pare ribadire il desiderio di aiutare ogni singolo acquirente del libro. «Già», ammetto, «immagino che dieci step richiedano un po' di tempo...». Alzo lo sguardo su Yoongi.Siamo stati scaricati entrambi. Lui non vuole andare a casa, e io non potrei farlo nemmeno se lo volessi. E davvero non ho intenzione di andare al Ramada: finirò solo per raggomitolarmi sul letto, piangere e controllare il cellulare ogni due secondi per tenere d'occhio il profilo Instagram di Jimin,perché in qualche modo devo sapere cosa sta facendo. Cosa sta facendo senza di me. Prima di capire se è una buona idea oppure no, chiedo ad Yoongi se conosce bene New York. Lui ricambia il mio sguardo come se gli avessi chiesto se fa la doccia nella crema pasticcera. «Vivo qui da sempre. Perché?»«Ci vogliono più o meno diciassette ore prima che parta il mio volo. Mi rifiuto di trascorrerle a fissare il muro in una minuscola stanza d'albergo. Le pareti saranno beige! Ho bisogno di distrarmi, e andarmene per la città la vigilia di Natale fa proprio al caso mio, no? Tu non lo sai, ma io sono venuta qui per vivere delle avventure, e non è successo. Ma quanti possono raccontare di essere rimasti bloccati a cinquemila chilometri da casa la vigilia di Natale?». Lui continua a guardarmi fisso senza battere ciglio. «Probabilmente nessuno, forse perché la maggior parte di loro finisce per essere rapinata». «Forse succede perché sono soli». Non so se questa sia la Minhee inglese o la Nuova Minhee, ma ho in mente un piano. Yoongi sta scuotendo la testa. «No, no, no...». «Sei stato tu a dire che non vuoi tornare a casa», osservo. Lui fa per dire qualcosa ma poi si blocca. Non ha risposte da darmi. Solo una domanda. «Pensi davvero che vagare per New York risolverà tutto?». Certo che no, vorrei rispondere. Non mi aspetto che vagare una notte per Manhattan sanerà le ferite del mio cuore; probabilmente non riuscirà neppure a nasconderle. Ma sto soffrendo e non ne posso più. Mi sento ancora più sola di quello che avrei creduto possibile, e non voglio che Yoongi vada via. Sarà perché lui è l'unica persona che conosco a New York (anche se non lo conosco chissà quanto). E se torno da questo viaggio almeno con una storia da raccontare, un'esperienza unica che avrei potuto fare solo a New York, allora forse, e dico forse, quando sarò una vecchia signora non mi prenderò a calci per aver sprecato tre mesi della mia vita dietro a un ragazzo e a una città che non mi ricambiavano. «Andiamo», insisto, invece. «Vieni con me! Ci divertiremo. Hai la faccia di uno che ha bisogno di svagarsi. Io ce l'ho sicuramente». Ma lui continua a scuotere la testa. «Ragazzina, se credi che smettere di pensare a qualcuno sia così semplice, allora...». Non finisce la frase, scrolla di nuovo la testa. Con un sorrisetto. Per qualche motivo mi viene voglia di colpirlo con le sue rose indesiderate. Sarà perché mi ha chiamata ragazzina. «Allora cosa?» «Niente». «No, dimmi: allora cosa?». Fa spallucce, torna a scuotere la testa. Prende le rose e lo zaino e si alza in piedi. «Allora penso che tu non sappia cos'è l'amore». Si allontana lasciandomi da sola sulla panchina.

Dieci minuti dopo, sono fuori dall'aeroporto in fondo alla fila per i taxi. È una coda lunghissima, la conseguenza di tutti i voli cancellati. Mi sta nevicando addosso. Probabilmente sono un'idiota a ignorare la calda stanza d'albergo che mi hanno offerto gratis e voler passare tutta la notte fuori in pieno inverno. Ma ho deciso che la Minhee inglese tornerà a casa con una storia grandiosa. Un ricordo grandioso. Il cellulare nella tasca dei jeans vibra contro la mia coscia. Messaggi su WhatsApp dei miei amici in Inghilterra, hanno sentito che sono rimasta bloccata qui. I primi due sono delle mie migliori amiche, Heather e Amelia, dicono che sono invidiose perché posso passare il Natale a New York; sorrido. Ma Jessica, la più grande delle mie sorelline, mi ha mandato un'emoji gigantesca di una faccia che piange, così mi sento autorizzata a mandare una faccina triste e smetto di controllare i messaggi. Me li riservo per dopo. Il cielo è di un grigio tetro e la neve cade sui passeggeri bloccati in coda. Più avanti volano spintoni, e una signora con un cappotto pesante e l'aria infastidita assume il controllo della situazione dicendo che faranno salire quante più persone possibili su ciascun taxi. In mano ha un blocco per appunti e chiede alle persone dove devono andare, indirizzandole verso questo o quel taxi. Quando tocca a me rispondere, mi rendo conto che non ho pensato a dove andare precisamente, ma mi torna in mente un quartiere in cui mi hanno portato i Lawrence, dove ho bevuto un caffè talmente squisito da dimenticare quanto mi mancasse il buon vecchio tè inglese. «Greenwich Village». Lei dà uno sguardo al blocco per appunti e poi mi indica uno dei taxi. Si rivolge alla persona dietro di me e io mi allontano. Apro lo sportello posteriore del taxi, vedo chi è seduto dentro e mi lascio scappare un lamento. «Oh, ma dai!».

Kiss me in New York |M.Yg [Traduzione Italiana]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora