▪️Capitolo 39▪️

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Godetevi questo capitolo chilometrico!
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Il signor Traipipattanapong è seduto a capo del tavolo che si affaccia alla porta d'ingresso, Gulf riesce a osservarne per intero la figura alta almeno dieci centimetri più di lui, le spalle massicce e leggermente incurvate che gli ricordano a stento quelle di sua sorella. Una mano callosa tiene una lattina di birra, l'altra lambisce l'orlo del tavolo in una presa ferrea che non lascia presagire niente di buono.

"Tutto bene?" Il corvino si rivolge a sua madre, con un tono apparentemente naturale ma con un intento ben preciso sul fondo, lasciato intendere da un'occhiata attenta.

"Non ignorare tuo padre." Sbotta la donna, stroncando qualsiasi tentativo del figlio di instaurare un'intesa, ma questo non lo lascia sorpreso. In fondo non ricorda una volta in cui sua madre abbia preso le sue parti.

"Scusa, papà." Gli viene voglia di serrare le mani in due pugni, ma si trattiene. "Non sapevo che fossi tornato in città." Ciò che avrebbe voluto dire è 'non sapevo che non te ne fossi ancora andato', ma sa che quella versione non sarebbe stata accettata di buon grado.

"Non avevo dubbi, Kanawut." Sputa il suo nome di battesimo come se avesse un sapore amaro in bocca. "Non sei mai stato abbastanza responsabile da preoccuparti di quello che succede nella tua famiglia, e non me lo aspetto adesso."

"Sono stato da un amico." Spiega, rigidamente in piedi, in attesa di poter porre una fine a quella conversazione.

"Quel tizio dell'ospedale, certo." Gulf riesce a non sussultare, ma non nasconde altrettanto bene il guizzo di sorpresa che gli carica lo sguardo. Come ha fatto a scordarsene? Mew gli aveva detto che si erano incontrati in ospedale. "Come-"

"Io so quello che fa mio figlio, Kanawut. E' una vergogna che tu non abbia preso proprio niente da me." La lattina ormai vuota ricade sul tavolo, Nuch si affretta a buttarla via e ripulire il punto con uno straccio umido.

"E sai cos'altro so?" L'uomo si lascia ricadere sgraziatamente indietro sullo schienale della sedia, squadrandogli l'aspetto con aria di sufficienza, come se lo stesse notando solo ora e fosse, come del resto, disgustato da ciò che vede. Gulf scuote la testa, in silenzio.

"Dicono che il tuo amico è pure frocio." Lo stomaco del corvino precipita nel vuoto a quelle parole. "Papà." Gli esce fuori spontaneamente, con tono d'avvertimento.

"Non bastavano quelle cose riprovevoli che fai in televisione, vengo a sapere che mio figlio se la fa pure con i froci." Sbatte forte un pugno sul tavolo, simulando un impeto di divertimento intriso di nient'altro che scherno e disprezzo.

Gulf non riesce a impedire al suo corpo di sussultare, e si odia per questo. Frocio, quella parola si ripete incessantemente nella sua testa in un eco assordante, gli lacera la pelle come un repellente veleno.

Vorrebbe dire qualcosa. Difendere Mew. Difendere sè stesso. Ma ogni parola che gli viene in mente sembra appartenere ad una lingua che è incapace di parlare.

Guarda sua madre, consapevole di non essere in grado di mascherare quanto quelle offese lo abbiano ferito, seppur non direttamente rivolte a lui. Non si aspetta che intervenga, ma cerca comunque il suo sguardo con una disperazione che sa essere dolorosamente evidente. Gli basterebbe un sorriso a malapena accennato, suo padre non lo vedrebbe ma per lui sarebbe abbastanza, gli darebbe la forza di sentirsi sostenuto da almeno uno dei suoi genitori. Ma lei gli nega anche quel semplice contatto.

Continua a fissare la sua schiena mentre traffica con la cucina, non si arrende, è il suo unico modo per non affrontare direttamente lo sguardo derisorio di suo padre. L'unico modo che ha. L'unico modo che ha per rimanere forte. L'unico modo.

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