II. La Maledizione

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L'alba dava il suo buongiorno al bosco che, piano piano, stava cominciando a svegliarsi, gli scoiattoli uscivano dalle loro tane sugli alberi, alcuni uccellini avevano iniziato a cinguettare e altri animali erano ancora troppo intorpiditi dal sonno.

La natura si stava risvegliando e presto il calore primaverile avrebbe accompagnato tutti loro nello svolgimento della propria giornata. Alcuni fiori sarebbero sbocciati, altri sarebbero stati impollinati dalle api, i cuccioli di cervo avrebbero giocato tra loro, altri avrebbero corso, altri dormito.

Eppure c'era qualcuno, o meglio qualcosa, che avrebbe ammirato la bellezza della primavera dietro il vetro di una finestra del castello, circondato da un rigido inverno. Sembrava di vivere dall'altra parte del polo, dove faceva sempre freddo e dove sembrava che il Natale non arrivasse mai. Ricordava i giorni di festa che trascorreva nel castello, prima che fossero costretti a vivere tra quelle mura, privi di godersi la vita a cui aspiravano.

Padfoot aveva il naso schiacciato - anche se difficile definirlo tale dal momento che i candelabri non ne avevano, ma a lui piaceva pensare così - contro il vetro e ripercorrere con la mente quei ricordi che custodiva gelosamente.

Erano tutti risalenti a prima della maledizione, prima che il castello perdesse il suo splendore, prima che la cupola di freddo e tristezza cadesse sulle loro teste e smettessero di essere solo dei ragazzi. La gioventù sembrava un ricordo così lontano, e Padfoot aveva la sensazione che la maturità lo avesse accolto, non lasciandogli la libertà di decidere.

Ah, se avesse potuto scegliere.

Pochi minuti dopo sentì i passi metallici di Moony alle sue spalle, era sempre stato il più agile del gruppo e all'improvviso era costretto a trasportare con sé una pancia colma di lancette, ingranaggi e - ormai - muffa. Sembrava trascinarsi le gambe e se non si fossero trovati in quella situazione, probabilmente non avrebbe perso occasione per prenderlo in giro.

«Come mai sei già sveglio?» Chiese l'orologio, avvicinandosi all'amico e guardando fuori la finestra.

Padfoot alzò le spalle. «Non avevo molto sonno»

Moony annuì e non aggiunse nient'altro. Anche lui ammirava il risveglio della natura, e si chiese quasi come facessero a non essere ancora impazziti. Erano passati anni dall'inizio della maledizione e sembrava che la luce non fosse destinata a arrivare mai. Chiunque in paese aveva dimenticato la loro esistenza, quella dei sovrani, quella del principe, del castello e di chiunque abitasse all'interno.

Come avrebbero mai potuto spezzare l'incantesimo se nessuno ricordava? Come avrebbe potuto il principe innamorarsi e farsi amare a sua volta se nessuno passava di lì? Se nessuno si accorgeva che il castello li ospitava ancora tutti?

Sapeva quanto fosse difficile per tutti loro continuare a vivere in quel modo, la speranza si affievoliva secondo dopo secondo. La rosa aveva già cominciato ad appassire. Il principe aveva compiuto ventun'anni da un paio di settimane e Moony ricordava bene come quella mattina tutti loro fossero piombati nella camera da letto del principe - ignorando i suoi improperi - per accertarsi se davvero la rosa avesse un aspetto diverso, e loro - ingenuamente - avevano tirato un sospiro di sollievo, credendo che quello fosse solo uno scherzo e che presto la maledizione si sarebbe spezzata. Ma non era stato così, perché -pochi giorni dopo il ventisette marzo - la rosa aveva perso il suo splendore e aveva cominciato ad accasciarsi su sé stessa.

«Oggi nessuno dorme, a quanto pare»

Alice fece la sua comparsa alle spalle dei due e si mise accanto a loro. Il suo riflesso di teiera si abbatteva contro il vetro e proprio quello le ricordava, in ogni momento della giornata, a che cosa fosse destinata la sua esistenza.

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