One for the road.

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"Vieni a salutarci in aeroporto, i ragazzi ci tengono. Io ci tengo."
E così sono qui, gli occhi fissi sul pavimento, pronta a salutare gli Arctic Monkeys per la loro partenza. C'è un brivido, in sottofondo, chissà dove.
Alex è stato dolce e premuroso, mi ha offerto la colazione, mi ha abbracciata di nascosto, nel parcheggio, perché nessuno ci vedesse. Non vogliamo rovinare tutto con le parole, eppure come faccio a non pensare che ne sarà di noi.
"Ora cercherai una nuova casa?" mi domanda, obbligandomi ad alzare il viso per guardarlo.
Annuisco "Sì."
"Hai già pensato dove?" si guarda intorno, vago "Intendo, qua o negli States?"
Scuoto la testa, una ciocca di capelli si sposta davanti ai miei occhi "Penso ritornerò negli States, il mio lavoro è là."
"Mmm, ti capisco."
"In realtà non so nemmeno io cosa ne sarà di me" mi lascio sfuggire a mezza voce.
"Prenditi il tuo tempo. O scappa con noi in tour."
I miei occhi lo fissano insistentemente, sgranati, le vene che pulsano all'impazzata "Mi stai..."
"Ti sto dicendo di fare una valigia e venire con noi. Girare un po' il mondo, passare del tempo con Breana e con me e poi ritornare qui."
"Stai cercando di fare quella cosa" scuoto la testa.
"Quale cosa?" eppure il suo tono, flebile, sembra aver già capito.
"Cerchi di tenerti tutto stretto, perché ti stai rendendo conto che vivere alla giornata non basta. E che le nostre vite, ora, possono solo procedere così. Lontani. A rimettere a posto pezzi rotti."
"Vorrei non aver aspettato tutti questi anni," si appoggia alla balaustra dietro di sé "e vorrei non aver avuto così poco tempo. Sono stato bene, per una volta. Bene davvero" il suo tono è ormai impercettibile tanto è basso.
"Lo so, anche io. Però... Io sarò qui, Alex. Alle tre di notte, sarò qui."
"Al, dobbiamo andare!" la voce di Matt in lontananza lo richiama all'ordine interrompendo un momento di intimità e facendolo piombare nell'imbarazzo.
Fa un passo verso di me, sembra costargli una fatica insopportabile. Mi avvicino anche io a lui, i miei jeans scoloriti nascondono il tremore delle gambe.
"Fai buon viaggio" sorrido.
"Ci vediamo presto" mi stringe a sé, appoggiando le labbra sulla mia fronte e premendole forte. Le mani grandi e calde si appoggiano sulla mia schiena stringendo la t-shirt.
"Mi devi la canzone che hai promesso di scrivere."
Lo faccio ridere, poi si avvicina al mio orecchio "Tu mi devi ancora tutto quello che voglio."
Mi fa rabbrividire, il suo soffio di voce si insinua nel mio cervello con un fascino irresistibile. Stringo anche io la sua maglietta "Non l'hai già avuto?"
"I want more" sfiora il mio collo con le labbra, si stacca appena da me e mi sorride. Dolce, calmo, come qualche mattina fa "Ti scrivo quando arriviamo, mardy bum."
"Vai a conquistare il mondo, Turner."

"Cutie, devo ammetterlo: questa casa è una figata!" Miles cerca consenso alzando il bicchiere che ha in mano, ridendo allegramente e la mia compagnia di amici lo segue a ruota con un'ovazione.
"Mi piace moltissimo, Miles ha ragione" Breana batte le mani tra loro e poi mi prende a braccetto "ho una cosa per te, più tardi."
La guardo interrogativa. "Ooh, non fare quel broncio, sweetiepie, è una cosa che ti piacerà!" esclama dandomi un bacio sulla guancia.
Tra gli invitati il più misterioso indossa una camicia risvoltata ai gomiti e un paio di pantaloni scuri, è rientrato da pochi giorni dal tour per una pausa ed è la prima volta che lo rivedo dopo la dolce parentesi londinese dopo le rispettive rotture con i nostri partner. E' stato lui a consigliarmi di scegliere Los Angeles, insieme al mio nuovo editore, ed è stato lui ad avermi fornito il numero di "una persona di fiducia" che si è premurata di aiutarmi a trovare questa casa che già adoro.
"Los Angeles è la scelta perfetta: fa caldo, puoi andare in moto anche a dicembre, c'è il tuo editore, ci sono i tuoi amici e c'è la tua rockstar preferita."
"Non sapevo che Noel si fosse trasferito lì..."
"Sei sempre la solita stronza" ha riso alla cornetta.
"E poi io neanche ci vado in moto."
"Ti ci porta la tua rockstar preferita, mardy bum."
Mi ha fatta ridere e, come fa spesso, mi ha anche convinta a scegliere Los Angeles. Il mio editore ha appreso la decisione con gioia facendomi recapitare a casa un nuovo pc per "ambientarmi meglio" e Alex mi ha chiamata la prima sera in cui, da sola nel mio nuovo appartamento, posavo i libri e i cd sullo scaffale.
"Come si sta nella nuova casa?"
"Magnificamente. Il vinile di Favourite Worst Nightmare è appena stato sistemato."
"Vorrà dire che dovrò passare a vederlo."
"Prima pensa a tornare dal tour."
Ha sbadigliato sornionamente "A dire il vero domani sera atterro a Los Angeles. Ho pensato che i giorni di pausa, invece che farli in giro per il mondo, preferisco farli a qualche chilometro da te."
E così ho organizzato in fretta e furia una serata per inaugurare la nuova casa e Miles, mio angelo custode, si è premurato di stare con me in questi giorni perché nel caso avessi avuto bisogno di qualcosa, lui sarebbe stato lì vicino a me. Dopo l'intera giornata trascorsa a svuotare scatoloni, ci siamo accoccolati sul divano a guardare fuori dalla finestra cantando e raccontandoci qualcosa della nostra vita. E' così simile a me e contemporaneamente così diametralmente opposto.
"Hai fatto un'ottima scelta, è bellissima" l'invitato tenebroso, la pelle appena abbronzata e il viso un po' stanco, si è avvicinato a me.
"Bentornato" i nostri due bicchieri di vino rosso tintinnano e i miei occhi stanno già cercando i suoi con premura. Sono sempre bellissimi e questa sera sembrano più carichi, come un colore più pastoso sulla tela, il mare che gorgoglia tingendosi di viola e arancione al tramonto.
"Grazie. Ben... Sistemata? Non so se si dica... Ben arrivata a Los Angeles, comunque" si avvicina appoggiando le labbra sulla mia guancia con decisione, la sua mano sulla mia schiena. Mi guarda per un attimo, sfuggevole, e sembra che il mondo si fermi.
"Vieni, voglio farti vedere una cosa" aggancio il mio indice al suo e lo porto davanti alla libreria, dove oltre ai libri e ai cd c'è il vinile di cui gli ho parlato durante la telefonata. Accanto, il mio racconto, nato nello stesso anno.
Un dolce sorriso disteso gli si dipinge sul volto, l'indice appoggiato sul labbro inferiore "Wow."
"Guardali qua, i miei ragazzi", chiosa paternamente Miles abbracciandoci entrambi "Nello stesso anno, album e libro. Dovreste aprire un'attività creativa insieme".
"Beth è già stata di aiuto molte volte..." sorride Alex lanciandomi un'occhiata divertita "anche se, Connell, ora dovrai fare del tuo meglio per il prossimo album."
Rido lasciando andare la testa indietro "Sarò collaborativa."
"Non è giusto," piagnucola l'altro "anche io voglio una mano! Perché lui sì e io no?"
Gli stampo un bacio sulla guancia, allungandomi in punta di piedi per raggiungerlo "Vedrò cosa posso fare."
Faccio svolazzare la mia tutina allontanandomi e lasciandoli a farsi i dispetti e raggiungo Matt, che osserva la vista dal finestrone adiacente la cucina con aria soddisfatta "È un posto davvero bello. E poi sono felice che ci sia anche tu vicino a me e Breana" si ferma un attimo "e Alex. Penso gli farà bene la tua presenza."
"Ha bisogno di qualcuno che gli faccia bene?" domando nascondendomi dietro al bicchiere.
Storce le labbra "Non lo so. Forse sono solo io che faccio la mammina del cazzo, come dice lui... Ma durante questo tour mi è sembrato più spaesato del solito. Perso."
"Non pensavo -"
"No, non lo pensavi. Lo so. Perché vedendolo ora, beh, sembra l'Al di sempre, no!? Solo un po' più stanco e più abbronzato. Però... Non lo so."
"Tu sai che per qualunque cosa lo riguardi – e vi riguardi – io ci sono, vero?"
Annuisce, apparentemente rassicurato "Sì. Sì, lo so. Grazie, Beth."
"Ehm – ehm", Breana alle nostre spalle si schiarisce la voce "Matt, io e te non dobbiamo dare niente a Beth?"
"Oh sì!" esclama "dobbiamo darti una cosa".
Breana si avvicina a me e mi porge un pacchetto rettangolare "Apri!"
Piano piano, scarto il regalo che ho tra le mani e, stappando la carta, un ritratto di me e Breana si profila in tutta la sua folle e complice bellezza. È una foto che ci ha fatto proprio Matt, durante una serata finita con bottiglie sparse a terra, fogli scritti e disegnati, altri appallottolati e lanciati fuori dal cestino, con delle Chanel ai piedi e solo un paio di slip e un giubbotto di pelle. "Facciamo le modelle" mi pregava Breana come una bimba che vuole giocare. E Matt, sbronzo, con la sua macchina fotografica in mano, scattava. Qui, io e Breana ci abbracciamo, in bilico sui tacchi, ridendo. La luce che proviene dalla lampada illumina i nostri visi su cui due flebili lacrime sono la prova di quanto ci stessimo divertendo, tanto da piangere e avere i crampi alla pancia.
"È meravigliosa" sorrido, stringendola tra le mani. "È..."
"Mi piace dire che è la nostra essenza", Breana pronuncia queste parole con una calma dolce che mi scalda il cuore "e volevamo ricordarti a nostri modo quanto bene ti vogliamo". I miei occhi si appannano e due lacrime calde mi imperlano le ciglia. "Grazie, ragazzi... Grazie davvero", porto una mano al cuore, ammirando ancora una volta quello scatto.
"Stavo pensando che comunque quell'angolo meriterebbe ancora qualcosa... Che ne dite se i prossimi awards che vinciamo li lasciamo a Beth? Invece di spargerli in giro per il mondo e perderli" ride Alex, per poi accorgersi di ciò che ho tra le mani "Posso vedere?", curioso. Annuisco, allungandogli la cornice sotto il sorriso benevolo di Matt e Breana. Osserva la foto rapito, disegnandone i profili con il dito "E' bellissima – siete bellissime".

Come cazzo era quell'accordo? Dovrei darci meno dentro con l'alcol o finirà che non mi ricorderò le parole delle canzoni che ho scritto. Il fatto che mi sia dimenticato quelle di 505 forse è un segnale. Sorrido e altrettanto amaramente termino l'ultimo sorso di scotch, residuo melmoso sul fondo del bicchiere. Passo il dorso della mano sulle labbra e ritorno a fissare il foglio scarabocchiato con la biro, che mi ha macchiato buona parte delle dita.
Will you pour me one for the road?
Non so come continuare. Chiudo gli occhi, massaggiandomi le palpebre e cercando di materializzare nuovamente davanti a me quelle immagini. Avrei dovuto scrivere di getto quella sera, era tutto così vivo, così vibrante e intenso. Ripenso a quel muro bianco, su cui si proiettavano le ombre degli alberi e il profilo del suo corpo, delle sue gambe e del suo seno, così sensuale e così inconsapevole della sua bellezza. Mi ricordo di me stesso, più stanco e vittima del jet lag che sbronzo, con un po' di sonnifero ancora in circolo, seduto scompostamente sul suo divano nuovo osservarla mentre sorrideva agli invitati, annuiva, si spostava il capelli dietro le orecchie e avvicinava quel bicchiere alle labbra come se dovesse baciarlo ogni volta. Le avevo promesso una canzone, e se vado avanti così mi ritroverò a dedicarle un album. Il più commerciale della storia delle Scimmie, ma anche quello più... Erotico, o qualcosa di simile. Il solo pensiero di dover girare il video del nostro prossimo singolo con Arielle, il prossimo mese, mi mette la nausea. Los Angeles mi mette la nausea, da poco tempo a questa parte. Ogni volta che mi ci ritrovo non vedo l'ora di partire per la prossima data e le poche sere che sono qui, sono un sollievo solo se lei spunta con le pizze o il sushi take away dopo il lavoro e mi invade casa con la sua risata e le sue idee scarabocchiate sui tovaglioli. La prima sera che è venuta qui ho dato buca ad Arielle con un messaggio che attribuiva la responsabilità a un virus intestinale. Vigliacco. Quella sera è stata qui, ci siamo messi fuori, davanti alla piscina, con una birra e i riflessi giallognoli delle lampade sui nostri visi. La osservavo mentre guardava l'acqua in maniera quasi ossessiva: ne era rapita, totalmente attratta e mi sembrava di vedere la sua ispirazione scivolare via, lontano, in un posto che io posso solo immaginare ma non conoscere davvero. Ne conosco solo qualche coordinata, sono cosciente di qualche riferimento nella sua immaginazione che mi affascina. A volte, sorridendo, paragona la sua ossessione per l'acqua a quella che aveva la sua scrittrice preferita, Virginia Woolf. Riesce a interpretare il movimento di quella superficie in un modo che ammiro e da cui sono rapito; il mare o qualunque specchio d'acqua la calmano, la cullano, la rendono tranquilla e placano le sue ansie. Si mordicchiava l'indice, guardava la piscina e di quando in quando si girava verso di me, arrossendo appena se si rendeva conto che la stavo guardando. Avrei voluto stenderla sotto di me e fare l'amore lì, sentire la sua pelle e quel profumo, morderla e baciarla. Canticchiava qualche melodia casuale nei momenti di silenzio perché sa che mi piace. Ha quella voce calda, che ti entra sottopelle.
"Ti senti a casa, qui?" diretta, guardandomi negli occhi. Ho storto la bocca. Quando ci sei tu, sì, avrei voluto risponderle.
"No, a dire il vero non molto" ho confessato.
"Mmm, neanche io, sai? O meglio, dipende. Ad esempio," si è sistemata meglio sulla sdraio, i pantaloncini hanno mostrato la sua fenice colorata sulla coscia "adesso mi sento a casa." Avrei voluto fare l'amore, tutta la notte.
Quella sera, quando ha festeggiato la casa nuova... La guardavo aggirarsi nelle stanze e la seguivo con lo sguardo e mi sembrava di essere sempre stato lì.

There's no need to show me round, baby, I feel like I've been here before

Scarabocchio con la scrittura storta. Era seduta per terra, dopo aver salutato tutti e sul tavolino basso di cristallo c'era quello scatto di Matt, dove ha le braccia in aria e un paio di slip e solo un giubbotto di pelle e i capelli all'indietro e ride, ride spontaneamente, quel riso contagioso e bellissimo. Ed è così sexy, così raffinatamente intrigante. Quando ha chiuso la porta alle spalle dell'ultimo invitato mi ha sorriso "E' rimasto un po' d'alcol per noi".
"Bicchiere della staffa?"
Ha sorriso languidamente e terminando la bottiglia di vodka che aveva tra le mani non ha mai mollato la presa dal mio sguardo. Sempre gli occhi fissi su di me, con una determinazione che sembrava una sfida, con un desiderio tanto felino da farmi pulsare le tempie.
Me la immagino con addosso solo un giubbotto di pelle, camminarmi davanti ed evitare con i piedi nudi tutto ciò che lasciamo sparso per terra con noncuranza e sorridermi e vedere solo me. Ho sempre sperato, in qualche modo perverso, che vedesse solo me. E la immagino piegarsi per raccogliere i suoi testi, le sue confessioni e i flussi di coscienza che lascia scorrere da quella mano elegante e da quella penna che tiene tra le dita in un modo tutto suo, incidendo le parole sul foglio. "A volte la mia mente mi fa paura" mi ha confessato una sera, vicina alle mie labbra tanto da sfiorarle e con gli occhi liquidi, dopo aver scritto un foglio di cui non ricordava assolutamente niente. Me lo lasciò leggere solo dopo averne parlato per molto e lo trovai decadente e malinconico, meraviglioso e vero, reale, capace di tagliarti la carne in due e lasciarti sanguinare. La tranquillizzai, stringendola a me, stringendola tanto che non sapevo se le avrei potuto fare del male: avevo paura che si perdesse, volevo tenerla vicino. E lei ci rimase, stringendomi più forte, ricordo il profilo delle sue costole sotto le mie dita, il suo respiro che era un tutt'uno con il mio.

I go crazy cause here isn't where I wanna be
And satisfaction feels like a distant memory
And I can't help myself
All I wanna hear her say is "Are you mine?"

E' partita due giorni fa per tornare a Sheffield, ha detto che ha bisogno di osservare il verde di casa per ultimare il suo racconto ed esercitarsi un po' e questa città sembra vuota. Sembra fatta da migliaia di palazzi che sono scatoloni vuoti che puzzano di plastica e esalano un odore insopportabile sotto un sole accecante che a dicembre ti obbliga a metterti le magliette a maniche corte. Me la immagino in uno dei suoi maglioni di lana, con i capelli raccolti in una fascia da pin-up degli anni Cinquanta, una tazza di the e il pacchetto di Benson sempre vuoto.
Quest'anno non posso lasciare che passi ancora una volta il Capodanno lontana da me, sempre che io non voglia trovarmi a scrivere un'altra Only Ones Who Know. Che cazzo sto combinando?
Afferro il cellulare e compongo il suo numero, mentre si avvia la comunicazione calcolo che da lei dovrebbero essere più o meno le cinque di pomeriggio. Risponde dopo parecchi squilli, con voce allegra "Turner! Buongiorno!"
Rido a bassa voce "Buonasera, come procede a Sheffield?"
"Mmm," la sento sbuffare e capisco che ha appena soffiato il fumo della sigaretta dalle labbra "è già buio, piove un pochino e sono in una fase ispirata di composizione. Come sta la ridente Los Angeles?"
"Come la reginetta della festa del liceo" mi lascio scappare, istintivamente, certa che lei capisca.
"Ah, e noi siamo quelli seduti nell'angolo al buio con il punch corretto."
Sorrido "Esatto".
"Perché mi hai chiamato?"
Giusto. Perché ti ho chiamato? Non lo so, Beth. Perché avevo bisogno di sentire la tua voce per sentirmi a casa? Perché mi ispiri? Perché vorrei addormentarmi sul tuo divano con te che mi copri con la tua coperta preferita?
"Stavo pensando di tornare... Stasera."
Chiudo appena gli occhi sperando di scongiurare un torrente di domande preoccupate, un tono indagatore, qualche sospetto. "Uhm, ok! Pensi di arrivare a Londra? Vuoi che ti venga a prendere?"
Sorrido, pensando alla naturalezza con cui accoglie anche le mie follie. Immagino abbia compreso cosa mi sta succedendo e lei è cosciente che reagirebbe allo stesso modo – l'ha già fatto.
"Dovrei arrivare domani verso mezzogiorno a Manchester. Se non puoi venire, prendo un taxi."
Ho controllato i voli, ieri sera, in preda al panico davanti alla pagina bianca e a una chitarra che mi sembra di non aver mai saputo suonare.
"Arrivi nella mia città, non posso che venire ad accoglierti. E sarei anche venuta a Londra, se fosse stato necessario. Vai dai tuoi?"
"Sì... Cioè, non li ho ancora chiamati, però – "
"Alex, vuoi venire qualche giorno da me? Prima di Natale... Io poi dovrò andare dai miei per le feste."
"Dici davvero?"
"Mm-mm, perché non dovrei? Non so, penso che come altre volte questo possa essere un buon modo per trovare l'ispirazione, no? Ho sigarette, alcol, quaderni, fogli e una strana ispirazione che mi fa scrivere principalmente di notte. Ah, e cibo. Ma mi sembra secondario."
"Sembra un programma che non posso rifiutare" accenno un sorriso vicino alla cornetta. Stupidamente, come se potessi sfiorare le sue labbra.
"Allora ti aspetto a mezzogiorno a Manchester. Vestiti bene, che qui fa freddo."
"Beth?" incerto.
"Dimmi."
"Grazie", sussurro.
"E' il minimo che io possa fare. Buona giornata, Al."
"Buona serata, Beth."
Interrompe la comunicazione dopo aver atteso ancora un attimo, il tempo di uno sguardo e un sorriso, se fossimo stati l'uno davanti all'altra. Appoggio il telefono sul ripiano accanto a me e mi sembra di riuscire a respirare di nuovo. Il tremolio alle mani si placa, lasciando spazio a un senso di pienezza, di calma. Torno a Sheffield, sto un po' da Beth, riprendo a scrivere e magari bevo un po' più di the e un po' meno alcolici e la guardo comporre, che mi ispira sempre.
Sì, non può andare così male. Poi passeremo Capodanno da qualche parte con Miles e gli altri, in fondo conosco Arielle da troppo poco per poter fare una grande festa con i suoi amici californiani, biondi, abbronzati e con degli addominali perfetti. Quanto sono coglione, mi scelgo sempre delle situazioni del cazzo in cui districarmi, come quella in cui sto per trovarmi, dato che Arielle sta scendendo le scale facendomi notare di come sia stata sorpresa a non trovarmi nel letto questa mattina e io continuo a fissare la piscina fuori dalla tenda bianca.
"Torno a Sheffield" asserisco serio, muovendomi nella direzione opposta alla sua. Mi guarda, i grandi occhi sgranati, stringendosi nelle spalle.
"Alex, va tutto bene?"
Annuisco "Sì, perché non dovrebbe?"
"E' scotch quello?" indica il bicchiere, con voce stridula.
"Lo era" rido sarcasticamente. La sento seguirmi, ma non presto molta attenzione. Dove ho messo il borsone?
"Hai detto che saresti tornato a casa per Natale..."
"Natale è tra una settimana, anticipo solo il rientro."
"Perché? Cioè, l'hai deciso stamattina? Non capisco... Ho bisogno di un caffè" mugola capricciosamente.
"L'ho deciso circa venti minuti fa, sì" che testa di cazzo che sono. Eppure non posso dirle la verità, come se esistesse una verità.
"Tornerai per Capodanno?"
Scuoto la testa, buttando sul letto t-shirt e camicie "No, ne avevamo già parlato." Non posso dimenticarmi le felpe. E quel cappotto invernale blu scuro, così caldo, quello che ti ripara dal vento traverso dell'Inghilterra del nord.
"Alex," sospira lasciandosi cadere sul letto "puoi dirmi cosa c'è che non va? Cosa ho fatto di male?"
"Non hai fatto niente di male, semplicemente voglio tornare a casa mia. Non ho ispirazione e la cosa mi innervosisce e quand'è così devo cambiare qualcosa."
"Ma io..."
"Arielle," la guardo in volto, struccata e assonnata, ma chiaramente preoccupata "non riguarda te. Riguarda me" sempre la solita vecchia storia. "Intendo dire, forse mi conosci ancora troppo poco, ma io sono fatto così. Non è un comportamento strano, da parte mia. Mi dispiace che tu ti ci sia trovata in mezzo perché eri qua... Ma non cambierà niente tra noi. Ci rivediamo appena dopo Capodanno" accenno un sorriso. Sembra sollevata, si passa una mano tra i capelli lunghi.
"Ok, è che... L'importante è che questa cosa ti faccia stare meglio. E poi," si alza, venendomi incontro e gettandomi le braccia al collo "mi ami, vero?"
Osservo le sue labbra carnose che domandano e vogliono. Vogliono avere certezze, incrollabili certezze basate sulle mie parole, quelle che non riesco a trovare e con cui sto facendo a pugni uscendone con le ossa rotte "Certo che ti amo". Davvero? La amo? Penso di non aver ancora capito cosa significhi davvero amare un'altra persona. O forse il fatto che io stia per prendere un aereo, dimostra che il mio istinto l'ha capito fin troppo bene.
Mi dà un lungo bacio, afferra il suo iPhone e con un risolino mi annuncia che andrà a prepararsi un caffè prima di andare via.
Forse dovrei scrivere un messaggio a Matt.

Guardo l'orologio, segna le 11.50.
Questa mattina mi sono svegliata presto, ho stranamente dormito sei ore di fila, dopo notti insonni e giornate trascorse sul divano a pensare. Mi sono fatta una doccia, ho sorseggiato una tazza di the compiacendomi del debolissimo, pallido sole che ha fatto capolino, ho sistemato la casa e mi sono preparata per mettermi in viaggio verso la mia Manchester. Ricordo quanto fosse stato penoso per me il viaggio di trasferimento dalla mia città natale a Sheffield, che ora considero – in maniera simile, ma mai paragonabile – casa mia. Ricordo le lacrime che non riuscivo a fermare e ogni singolo paesaggio che mi si parava davanti impresso a fuoco nella mente. Manchester mi mancava esponenzialmente man mano che i chilometri aumentavano.
Cerco di riportare alla mente quelle sensazioni, nonostante ora io abbia provato una calma e una pace infinita nel rivedere i paesaggi della mia infanzia, più duri e freddi di quelli di Sheffield, netti, nei colori e nei visi delle persone. Manchester ti tempra al freddo – quello vero – e al vento, agli alberi secchi, a un caleidoscopio di tinte scure e profonde. Ho finito le sigarette e sotto alla radio, che trasmette il notiziario della BBC, staziona un foglio piegato a metà: nei periodi in cui scrivo e mi isolo dal mondo per farlo adeguatamente, devo avere superfici su cui scrivere ovunque. E' un esercizio continuo che chiede pazienza e capacità di ascoltarsi.
L'aereo in arrivo da Los Angeles è annunciato come puntuale e tra le mani ho un tovagliolo preso al bar dopo un caffè. Con il pennarello nero ci ho scritto sopra 'Turner' e ora lo rigiro nervosamente tra le mani, mentre a pochi metri da me una mamma con due bimbi attende impaziente l'arrivo dell'aereo. Reclamano a gran voce il papà, i piccoli, e pregustano i regali che arriveranno dall'altra parte dell'Oceano, solo per loro. Intorno a noi le decorazioni natalizie si sprecano, nei toni del rosso, bianco e verde. Oro, a tratti argento. In sottofondo, a volte impercettibile, sembra risuonare costantemente un jingle di Natale che ci avvisa della ricorrenza ormai prossima. Persone chiuse nei loro cappotti, con le sciarpe di lana a coprire il naso e i cappelli spessi a coprire la fronte fino agli occhi. Accenti duri, quasi quanto la vita quassù, accenti che profumano di casa tanto quanto la torta preparata dal piccolo chiosco della pasticceria a qualche metro da me. Ancora una volta questo è Natale, il mio Natale.
Los Angeles inizia a lampeggiare e i bambini iniziano a saltellare in tondo e io, istintivamente, vengo rapita da quella gioia così spontanea e innocente, così vera e casinista. Mi sento capace di mettermi a ballare accanto a loro, felice perché Alex sta per arrivare e io non vedo l'ora di riabbracciarlo.
I minuti che ci separano sembrano interminabili, lunghissimi e nervosi e solo dopo un po' i primi passeggeri iniziano a fare la loro comparsa, accolti con urletti e abbracci festanti, che immediatamente coinvolgono i presenti. Sorrido, vedendo una giovane coppia che si bacia e il papà dei bimbi che, con due pesanti valigie, li stringe forte a sé promettendo loro un pomeriggio passato a giocare. Pian piano alzo il mio tovagliolo. Un ragazzo magro, con un paio di occhiali da sole, una felpa col cappuccio e un cappotto, trascina una valigia e un borsone guardando a terra. Sposta lo sguardo e vedendo la mia scritta, sorride. Sorride spontaneamente, mostrando la dentatura perfetta e si avvicina accelerando appena il passo verso di me, schivando l'attenzione delle altre persone. Tira su gli occhiali e allarga le braccia verso di me, e lo sento stringermi al suo petto e perdersi tra i miei capelli, posarmi un bacio casto sulla guancia e senza staccarsi da me, tenermi ancora più stretta. "Ciao", sussurra con voce rotta.
"Ciao, Al".
Si allontana di un passo, per prendere tra le mani il tovagliolino e guardarmi negli occhi "Grazie, nessuno l'aveva mai fatto". Rido "E' stato un piacere", allungo la mano verso di lui "andiamo a casa?"
Si guarda intorno lentamente, studiando il posto in cui si trova e senza smettere di sorridere mi guarda nuovamente "Sì. Finalmente sono a casa".

Apre il portoncino con due scatti decisi e trascino i piedi seguendo i suoi movimenti, così dolci e armoniosi. Accende la luce, indica il divano togliendosi il giubbotto "Come sempre, appoggia la roba dove vuoi".
Lascio la valigia e il borsone accanto al divano, camminando per la stanza, come se la scoprissi per la prima volta nonostante io conosca ogni metro quadro a memoria.
Quando torno qui, quando torno in Inghilterra mi sembra di essere capace di dare un nome alle cose e dietro ognuna di esse, di leggerci una storia. Di poter immaginare e sviluppare dei concetti, per quanto nebulosi. Sento che l'ispirazione non solo si gonfia, ma in qualche modo riesce a condurmi da qualche parte. E' come se tornassi di nuovo bambino e imparassi nuovamente a dare un nome agli oggetti e alle situazioni, riscoprendo gli stati d'animo, riassaporando il gusto di un buon the e godendo del caldo di una coperta di pile. Imparo di nuovo a sentire il sibilare del vento tra gli alberi, il freddo che ti si infila nella camicia e due grandi occhi scuri che mi scrutano. Ricomincio a sentire su di me i sentimenti, i modi di percepire. Esco da quel limbo di apatia e insensibilità, da lobotomizzato del cazzo, in cui precipito una volta tornato a Los Angeles, dove solo l'odore dell'alcol e le mani della mia compagna di turno mi risvegliano dal torpore – o mi ci gettano di nuovo.
"Un the?" ha una sigaretta in bilico tra le labbra e in mano il bollitore.
"Sì, grazie", mi stropiccio gli occhi sedendomi sul divano che sprofonda appena sotto il mio peso "ne ho bisogno. Quello sull'aereo faceva schifo".
"Il the o il cocktail?" ride, espirando.
"Il the", la rimbecco "come fai a sapere che ho preso un cocktail?"
"Perché ti conosco", accende il gas e si volta a guardarmi con un sopracciglio alzato, la schiena appoggiata al ripiano della cucina.
"Avevo bisogno di buttare giù il sonnifero", sussurro in mia difesa, quando ogni mia difesa davanti a lei cade come soldatini di piombo sotto le dita di un bimbo incazzato.
"E comunque se in prima classe ti fanno un the che fa schifo, io chiederei un rimborso", dichiara chiuso l'argomento con un risolino, scegliendo le bustine di the con una calma che si gusta filtro per filtro, uno per uno, sfiorandoli con le dita. "Scelgo io?"
"Mm-mm", annuisco. "Mi hai detto che passerai le vacanze con i tuoi, torni a Manchester?"
Fa segno di sì con la testa e la lunga coda bionda oscilla "Mamma e papà quest'anno hanno deciso che saremo tutti da nonna Grace con il resto della famiglia Connell".
"Oh, nonna Grace!" esclamo. "Quanti ricordi", mi passo una mano tra i capelli come se con un movimento veloce potessi riportare indietro quegli anni. Beth sorride dolcemente, versando l'acqua bollente nelle due tazze "Ogni volta che la chiamo mi chiede come stai e si ricorda di quando ci preparava i biscotti". Nonna Grace più o meno una volta al mese veniva a trovare la famiglia Connell a Sheffield. Lei, fiera donna mancuniana, con i tratti del viso eleganti che immediatamente mostravano una bellezza per niente appassita, ma solo un po' meno appariscente di quella che doveva essere stata anni prima, con gli orecchini di perle e i capelli raccolti in uno chignon, le dita affusolate e un abbraccio pronto per chiunque varcasse la soglia di casa. Arrivava il mattino e mentre eravamo a scuola si dedicava alla preparazione del pranzo, dei dolci – e a volte anche della cena – per tutti, familiari ed eventuali ospiti. Quando nonna Grace era ad High Green, ci riunivamo per la merenda a casa di Beth e le correvamo intorno e la ringraziavamo: non incuteva né soggezione né timore, ma solo una tranquillità e un amore che profumavano di casa. Poi si sedeva sulla poltrona, leggeva un libro, solitamente qualche grande classico che aveva divorato in gioventù e di cui diceva che la rilettura in età avanzata svelasse nuovi segreti, o lavorava a maglia. Immagino che nonna Grace sia stata una delle prime sostenitrici a riconoscere il talento letterario di Beth.
"A cosa pensi?" mi domanda, ma prima che io possa rispondere allunga sul tavolo davanti a me la tazza e un foglio strappato dal suo block notes "Qua c'è la tua terapia: the e un foglio".
Sorrido, ringraziandola e la seguo mentre viene a sedersi vicino a me, stendendo le gambe e guardandomi "Quindi, a cosa pensi?"
"A nonna Grace. Ai pomeriggi da voi".
Annuisce "Tante persone che ci conoscono dicono che le assomiglio. Da qualche parte ho una foto di lei a vent'anni, ed è vero".
La osservo, mentre imbeve le labbra nel the, e penso che ha ereditato la stessa grazia nei movimenti, la stessa attenzione verso il prossimo e la stessa sensibilità, non solo nei confronti della letteratura ma soprattutto per le altre persone. Penso che ha lo stesso orgoglio dell'accento di Manchester che non ha abbandonato e si perde a guardare fuori dalla finestra con la medesima malinconia struggente. "Tutti dicono che abbiamo gli stessi occhi e –"
"Io avrei detto che avete la stessa bellezza", commento prima di bere un lungo sorso di quella che rimane la mia bevanda preferita. Si ferma, colpita da questa affermazione, gli occhi leggermente sgranati "Cosa intendi?"
Allungo la mano davanti a me, le dita piegate "Ho questa sensazione di quando avevo diciassette anni ed ero a casa tua. Era un pomeriggio e pioveva, quel tipo di pioggia di casa nostra. Nonna Grace ci aveva raccontato del fascino delle parole riscoperte, stava rileggendo per la terza volta Al Faro e forse è da lì che ho capito da dove arrivasse il tuo amore per la Woolf e poi ci aveva lasciati al tavolo della cucina a fare i compiti ed era andata a sedersi alla solita poltrona, vicino alla finestra. Aveva scostato la tenda e mentre tu cercavi una parola sul dizionario, io l'avevo guardata. Osservava fuori con un trasporto che mi colpì. Sembrava poter essere un quadro, mi sembrava di sentirla pensare, qualunque cosa stesse pensando. Forse tuo nonno, forse qualcosa che non avrebbe mai confessato. Tu hai la sua stessa anima, la sua stessa malinconia".
Il suo sguardo è grave, tanto intenso che sembra potermi trapassare la pelle, serio. Poi improvvisamente, si scioglie in un sorriso "E' la cosa più bella che mi sia mai stata detta a riguardo". Mi sembra di sentire le guance avvampare e per evitare di mostrare questo imbarazzo proprio dei miei migliori diciassette anni, nascondo il viso nella tazza, dicendo qualcosa di stupido.
"Come sono stati gli ultimi giorni?" le chiedo dopo un po'.
"Penso sia merito del jet lag se non ho più orari. Dormo di giorno e scrivo di notte, anche se in realtà dormo davvero poco. Sono andata al Boardwalk due sere fa, avevo bisogno di fare un tuffo nel passato. Sai come funziona per me, quando sono qui ritrovo l'ispirazione".
"Sì... Ti capisco".
"Come sono stati i tuoi ultimi giorni?"
Abbandono la testa indietro, fissando il soffitto "Non lo so, Beth. Sono stati.. Vuoti. Stupidi. Penso che stupidi sia la definizione migliore".
Il mio telefono mi avvisa dell'arrivo di un messaggio e, imbarazzato, mi scuso e lo leggo. E' Arielle, che chiede se vada tutto bene. La sento osservarmi, indagatrice e poi muoversi quasi con uno scatto, con quell'orgoglio incrollabile "E' la tua fidanzata?"
"Fidanzata mi sembra eccessivo".
"Qualunque cosa sia. Quella di turno è meglio come appellativo?"
Mi fa ridere "Non è migliore, ma forse più calzante", rispondo con un messaggio breve e spengo il telefono "Così la mia terapia sarà efficace".
Mi fa un segno di approvazione "Sei stanco?"
"Non troppo", mi massaggio le palpebre. "E' bello essere qui", allungo il collo verso di lei.
"Sì", circonda la tazza con entrambe le mani, sorridendo. "Ho pensato a una cosa, almeno per oggi: parliamo. Parliamo come piace a noi e dimentichiamoci il dover scrivere, il dover fare. Perdiamoci tra le parole."
"A una condizione", sussurro, reprimendo uno sbadiglio.
"Quale?"
"Che ti avvicini". Come quella sera, anche se in maniera diversa, più dolce e più intima, la vorrei stringere a me non lasciarla più.
Soddisfa la mia richiesta e il suo maglione sfiora la mia felpa.
"Tu hai qualcuno di turno?"
"No", decisa. "Sto dimostrando al mondo la mia libertà e la mia fuga da ogni legame convenzionale. Una storia d'amore adesso sarebbe solo un freno al mio lavoro... E non ne vedo l'utilità".
"Utilità per cosa?"
"Per la mia salute mentale", ride. "Ovviamente io e te siamo esclusi da questo discorso vagamente materialista".
"Mmm, noi solitamente dal materialismo fuggiamo", commento. Rimaniamo in silenzio, mentre fuori dalla finestra qualche macchina annuncia il suo passaggio. Una leggera nebbiolina si solleva dai campi molli d'acqua. "Nonna Grace ti ha mai spinta a fare la scrittrice?"
"Sì, è stata la prima a vedere del potenziale. Prima di andare a dormire non mi leggeva le storie, le inventavamo insieme".
Quest'immagine, della Beth bambina che io ho visto solo nelle foto ma non ho potuto conoscere, porta con sé una sensazione di malinconia per un passato che non ho mai vissuto.
"Ti chiedi mai come sarebbe stato se fossi rimasta a Manchester?"
"A volte", ammette, sporgendosi verso il tavolo e appoggiandoci la tazza, per poi ricadere indietro, il suo braccio appoggiato al mio "e mi piace immaginare che ci saremmo incontrati come studenti di letteratura a Manchester. Stesso anno, stessi corsi".
"E cosa ne sarebbe stato di noi?" le chiedo curioso.
"Mi stai chiedendo di inventare una storia?"
"Se vuoi vederla così..."
"Non ce la faccio a immaginarmi senza te", non mi guarda in faccia, fissa un punto da qualche parte perso nella stanza e sono abbastanza convinto che in questo momento sia in una specie di trance in cui è il suo inconscio a parlare "ma forse ci saremmo seduti vicini, ci saremmo riconosciuti nel nostro modo di essere. Saremmo andati a prendere un the alla caffetteria di fronte alla biblioteca, quella con il pavimento che ha assi di legno lisce e scure e le gambe delle sedie scricchiolano appena. Ci saremmo raccontati le nostre vite, vite di ragazzi come tanti altri. Ci saremmo dati il nostro primo bacio dopo una specie di appuntamento passato a camminare incrociando i piedi e scongiurando silenzi imbarazzati. E avremmo fatto l'amore qualche uscita dopo, magari ti avrei chiesto di passare nel mio appartamento a condividere un sushi e un film".
Non so se esiste davvero quella caffetteria e forse lei su quelle sedie non ci si è mai seduta, ma ascoltandola, con gli occhi socchiusi, mi sembra davvero di aver vissuto la vita parallela che lei ha creato per me. Mi ci vedo, studente impacciato con i libri di letteratura in mano, incrociare timidamente il suo sguardo e sentire le guance infuocarsi. Faccio passare il braccio dietro alle sue spalle e la stringo a me "Mi piace ciò che hai descritto".
"Penso piaccia anche a me", sussurra, appoggiandosi al mio petto.
"Qui mi sento davvero a casa. Prima pensavo che ogni volta che torno qui, mi sembra di imparare nuovamente a scrivere, ad aprirmi."
"E' per questo che torno in Inghilterra. Solo qui riesco a lavorare e a lasciarmi ispirare".
Gioco con i suoi capelli, sciogliendo lentamente la coda alta che porta sul capo. Una massa bionda si riversa sulle sue spalle e io ci infilo le dita, mi rilassa sentirla respirare appoggiata a me. "Hai già qualche idea per il nuovo libro?"
"Qualcosa, sì", i suoi polpastrelli giocano sul mio petto, "ma più che altro ho ben in mente l'atmosfera che voglio che abbia questa storia. Un'atmosfera dai colori tenui, che sappia di pagine ingiallite, di biro con l'inchiostro che profuma e macchia le dita, di aloni di tazze di the e rossetto lasciato sui bordi delle lettere. Voglio che piova e che ci sia un mondo ovattato là fuori e voglio provare a descriverlo senza che mi faccia troppa paura".
"Ho scritto di te, oggi" la mia voce sembra un'ammissione di colpa "scrivo di te".
"Cos'hai scritto?"
"Cose confuse. Riguardano la sera in cui sono venuto da te, nella casa nuova, alla festa che hai fatto".
"E?"
"E ho ripensato a quando tutti se ne sono andati e siamo rimasti seduti per terra, con il buio fuori e l'alcol quasi finito". Non ho il coraggio di continuare e di dirle che il pensiero di me che la spoglio con le mani e con la bocca e che faccio l'amore con lei sentendo il suo respiro accelerare mi ossessiona.
"Ci penso anche io. E penso che mi fai sentire a casa".
"C'è una canzone che ascolto spesso ultimamente, mi ricorda la sera che sei passata da me con il sushi".
"Qual è?"
"Animal Nitrate".
Annuisce "La adoro".
Sono quasi le sette quando mi alzo dal divano, assonnato, chiedendole se posso andare a farmi una doccia. Porto la valigia in camera sua, in cui il solito letto matrimoniale staziona al centro della stanza e varie foto di vari periodi della vita sono attaccate alle pareti. Le osservo, una per una e prendo un foglio abbandonato su cui appunto una frase, che viene poi celata nel portafoglio

There's this tune I found it makes me think of you somehow
And I play it on repeat, until I fall asleep
Spilling drinks on me settee

Prima di entrare in bagno, la sua voce mi ferma "Turner, preparo un gintonic?"
"Uno alla Connell, ti prego".

Bere tre gintonic con i ritmi di vita che ho ultimamente non è stata un'ottima idea. Ma d'altronde, i cocktail li ho preparati io e Alex mi ha seguita a ruota. Adesso, mentre io cerco di accendere l'ennesima Benson con una mano appoggiata al tavolo, lui strimpella sulla chitarra che mi ha regalato poco tempo fa, la sua prima chitarra. Si è lamentando fosse scordata, ma dopo averla messa a posto, mi sta deliziando con un impagabile repertorio Brit.
"Mi avevi chiesto una canzone, ricordi?"
Annuisco, aspirando il fumo e incrociando le gambe, mantenendo l'equilibrio. L'alcol mi conferisce sicuramente una sicurezza più sfrontata e mi rendo conto che lo sto divorando con gli occhi. Deglutisce, poi riprende "Dimmi che ne pensi".

She's a certified mind blower,
Knowing full well that I don't
May suggest there's somewhere from which you might know her
Just to get the ball to roll
Drunken monologues, confused because
It's not like I'm falling in love
I just want you to do me no good
And you look like you could

Sento lo stomaco pulsare e le mani tremare appena. Gli occhi lucidi, come quando senza preavviso la canzone giusta di colpisce dritta in faccia e non puoi fare altro che abbassare la testa e portarla con te "E' meravigliosa".
"E' tua, te l'avevo promessa", sorride di rimando.
Getto via la sigaretta dopo appena due boccate, mi avvicino a lui e gli tendo la mano "Andiamo a dormire?"
Annuisce, incastrando le sue dita tra le mie, alzandosi lentamente e seguendomi. Rimane attaccato a me mentre mi spoglio e le sue mani si sovrappongono alle mie e mi sfilano il maglione e la tshirt e scivolano sul mio seno, facendomi appoggiare la schiena al suo petto "Mi sei mancata", mi sussurra piano all'orecchio, dopo avermi lasciato una scia leggera di baci sul collo.
Mi siedo sul letto e lui si spoglia con lentezza davanti a me, piegandosi in avanti i capelli si muovono davanti ai suoi occhi. Le mie dita sono anestetizzate da quanto sono affascinata. Lo fisso e reprimo un gemito quando si allunga felinamente su di me, prendendomi per i fianchi e avvicinandoli ai suoi. Un bacio lungo e studiato, lento, carico di elettricità, prima che si corichi appoggiando la testa sulle mie cosce, baciandole a fior di pelle "Beth."
"Dimmi."
"Stavo pensando che dovremmo tatuarci addosso questo posto."

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