Electricity.

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 Respiro a pieni polmoni l'aria tinta del profumo dei croissant che proviene dalla porta a vetri di legno massiccio da cui escono due bambini seguiti dai loro genitori, pochi metri davanti a noi. La famigliola procede nella nostra medesima direzione, parlottando allegramente nell'accento spedito carico di quella erre graffiata e quei suoni profondi che io, con il mio massimo impegno, non riuscirò mai a riprodurre. Sorrido, mentre la bimba bionda – immagino la sorella minore del bambino poco più alto con il giubbottino nero – si sistema il cappello fucsia intrecciando le dita all'orlo di lana e tirandolo decisamente sulla fronte. Incrocio la gamba destra davanti alla sinistra, fermandomi. Il profumo di croissant si è ormai sciolto nell'aria di inizio dicembre. Mi volto, cercando con lo sguardo l'uomo in cappotto blu, maglia a righe, pantaloni scuri e Chealsea boots che osserva la vetrina di un negozietto di strumenti musicali. Torno sui miei passi, con due lunghe falcate, raggiungendolo e indagando curiosamente l'oggetto della sua attenzione, insieme a lui. Senza guardarmi, allunga il braccio teso verso di me, la mano aperta. Accolgo il suo tacito invito, lasciando che la mia mano si intrecci con la sua e accanto al suo corpo, appoggio – sulle punte dei piedi – il mento sulla sua spalla, continuando a guardare le chitarre esposte.
"Potrei comprarne una."
Annuisco, sfregando il mento sul suo cappotto. "Sarebbe una buona idea. Penso di sì."
Si volta, guardandomi. I suoi occhi ancora dolcemente assonnati mi studiano e il suo viso si avvicina al mio, lasciandomi sulle labbra un bacio umido. "Ora c'è qualcuno che ci aspetta."
Riprendiamo a camminare, mano nella mano, su di noi il cielo bianco fa filtrare una luce bizzarra e indecifrabile che rende Parigi come impolverata dal freddo. Questo non è il clima a cui siamo abituati a Los Angeles e Al sembra pensare lo stesso, abbottonandosi il cappotto.
Giriamo a destra, seguendo una via più stretta della precedente in cui gli edifici di mattoni rossastri costeggiano il marciapiede. In silenzio, osserva tutto ciò che gli sta intorno, il naso all'insù a cercare qualche dettaglio da imprimere in mente. Più di un passante lo fissa con fare curioso, desistendo dall'avvicinarsi nel vedere il poco interesse che nutre per il prossimo. Siamo quasi giunti a destinazione, svoltando in un viale alberato in cui si susseguono strette palazzine dai colori chiari, quando davanti a noi si presenta uno scenario che, con tutta la ritrosia possibile, è inevitabile dover affrontare: un gruppo di ragazzine, non avranno più di diciotto anni, alla vista di Alex e dopo numerose occhiate, domande, sussurri e risolini, si dirige con prepotenza verso di noi.
Al, serrando la mascella, emette un verso di disapprovazione. "Ho voglia di stare tranquillo." mi mugugna all'orecchio, prima di indossare la maschera da rockstar che frantuma cuori innocenti. Le ragazzine, quattro in tutto, accennano qualche parola in un inglese poco fluente con un accento francese, sventolando in aria i loro telefoni. "Selfie." Pronuncia una, con l'approvazione delle compagne. Mi faccio da parte, ritraendomi di qualche passo, le spalle strette. Mi abituerò mai alla sua popolarità, a questa orda di fan disinibite, all'attenzione mediatica e ai pettegolezzi? Potrà mai essere parte della mia quotidianità o sarà sempre quella dimensione presente, sì, ma strana e in fondo un po' imbarazzante?
Osservo il frontman degli Arctic Monkeys sorridere ai commenti delle ragazzine, firmando un quaderno che viene prontamente estratto da uno degli zainetti e allungato verso le sue mani infreddolite. Il ciuffo impomatato gli ricade sulla fronte e, annuendo con un mezzo sorriso, sposta una ciocca con il dorso dell'indice. Posa per una, due, tre, cinque foto. "Can I... hug you?" la ragazza dai capelli scuri che raggiunge a malapena la spalla di Alex, gli porge questa domanda con occhi sognanti. Annuisce, passando un braccio sulla sua schiena per il sesto e ultimo scatto.
"Merci Aléx" sorrido al francese accento posto sulla vocale sbagliata del nome "Merci beaucoup! Come back soon!"
Alex alza il pollice, guardandosi intorno. "Che ci fai lì?" mi domanda aprendo le braccia e accogliendomi accanto a lui, un bacio sulla fronte, stringendomi forte a sé.
"Stavo guardando il siparietto."
"E...?"
"Non so se mi ci abituerò mai... Al fatto che tu sia così tanto famoso e conosciuto."
Sospira. "Non possiamo farci niente, né io né tu."
Cerco nei suoi occhi la conferma di ciò che ha appena detto. Scuri, perfetti, bellissimi. Le uniche parole che riesco a pensare sono due, banalissime. Ti amo.
Sbuffo. "Hai ragione... Scusami."
Mi bacia nuovamente la fronte, con premura, con una dolcezza indescrivibile. Alex quando è lontano dagli Stati Uniti e scappa con me in Europa sembra rallentare i ritmi della sua vita, come se si spogliasse di ogni maschera, ogni trucco, ogni filtro, e si mostrasse per ciò che è. In giornate come questa, non raramente rimaniamo sotto le coperte fino al pomeriggio, coccolandoci e raccontandoci qualcosa. Ieri mattina, su mia richiesta, ha messo sul giradischi il vinile di Shostakovich che stazionava sul mobile accanto a una bottiglia di whiskey che avevamo terminato ed è corso subito a coricarsi accanto a me ridendo per il freddo che lo ha aggredito appena ha allungato un piede fuori dal letto. Quando ride e gioca, sembra tornare adolescente. Il viso di colpo si illumina. Cerco le sue labbra con urgenza, un mugolio sommesso. Mi bacia, mi sorride, mi passa una mano sul viso.
Camminiamo per pochi metri e uno degli scorci a me più familiari di questa città sembra acquistare colore tutto d'un tratto, prepotentemente. I ricordi, la memoria, i profumi dipingono questo quadretto che per me mai cambierà.
Alzo lo sguardo. Sylvie et Richard.
"Lo pronunciano Richàrd, qua?"
"Sì. E tu sai quanto per un mancuniano questo, a volte, possa essere irritante."

Entrando nel ristorante un mix di deliziosi profumi e il rumore dei piatti mi fa sentire istantaneamente a casa. Dal fondo della sala, mia mamma cammina spedita, le braccia aperte pronte per abbracciarci. "I miei ragazzi!" esclama, stringendo me a Al "Come state? Vi siete svegliati bene?"
Annuisco. "Speravo che Parigi ci avrebbe accolti con il sole."
"Non puoi chiedere troppo a questo cielo, lo sai." Mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Come si sta nella casa nuova?"
"Meravigliosamente bene." commenta Alex, precedendomi.
Mia mamma lo guarda a lungo negli occhi, sorridendo. "Dio, sono così felice di avervi qui. Richard!" chiama a gran voce.
Dalle porte della cucina, che si aprono con ampi movimenti spinte dai camerieri che stanno preparando la sala per l'apertura a pranzo, un uomo alto, con i capelli scuri e un grembiule bianco chiazzato di colori differenti e in qualche strambo modo armonici, procede solennemente. Allunga la mano tesa verso Alex, stringendogliela e avvolgendola con l'altra mano. "Ciao, Alex." lo saluta con un sorriso, che viene immediatamente corrisposto. "Finalmente qua!" mi stringe forte tra le sue braccia, che mi sembrano forti e invincibili come quando da piccola mi prendeva per i fianchi e mi alzava, fingendo di portarmi su, su, in cielo. Forse è il mio destino, amare gli uomini della mia vita tanto da crederli invincibili, perché è così che li sento, così che mi fanno sentire.
"Siete pronti per un pranzo come si deve?"
Annuiamo contemporaneamente. "Ho fatto preparare il tavolo che dà sull'angolo preferito di Beth, così sarete al riparo da occhi indiscreti. C'è una sorpresa per te." mia mamma punta l'indice verso di me, ridendo.
"Per me?"
"Abbiamo un'aspirante chef particolare." spiega.
"Così particolare che parla decisamente troppo." commenta mio padre a mezza voce, alzando gli occhi al cielo.
"Non essere sciocco," una pacca sulla spalla "è bello che sia così!"
"Quindi? Chi è?" domando impaziente, dondolando sulle ginocchia.
"Dato che si occuperà del vostro pranzo, verrà a salutarvi a fine pasto. Ora sta lavorando."
"O parlando. A raffica." continua papà nascondendo una risata divertita.
Mia madre lo fulmina con lo sguardo, prima di invitarci a prendere posto. "Vi raggiungo tra qualche minuto con un aperitivo. Se non hanno bisogno di me, posso passare un po' di tempo con voi prima che arrivi la prima prenotazione."
Aggancio le mie dita a quelle di Al, fredde, e gli faccio strada lentamente lungo il corridoio creato alla nostra sinistra dai tavoli e alla nostra destra dal bancone del bar. I miei stivali rumoreggiano sul pavimento in marmo e il mio sguardo, come sempre, si ferma qualche secondo sul legno scuro del bacone, dietro cui tre piani di mensole sono occupate in tutta la loro lunghezza da bottiglie di ogni forma, colore e spessore. Se mio papà è sempre stato "il cibo", mia mamma ha sicuramente sempre primeggiato nelle scelte dei vini e nella cura del "bere", associata alla supervisione della sala. Si completano quei due, in casa, nel loro rapporto e nel lavoro.
Raggiungiamo il tavolo in fondo al locale, nel mio posto preferito. E' una zona leggermente rialzata rispetto agli altri tavoli: salendo tre scalini ci si può accomodare sui divanetti illuminati dalle finestre, alte fino al soffitto, che si affacciano su un giardino pressoché deserto. Ho sempre amato questo tavolo perché è l'unico del locale ad essere ad un livello più alto, potendo dominare la sala. I miei genitori hanno sempre riservato questo tavolo agli ospiti più importanti, alle occasioni speciali e alle prenotazioni che esplicitamente lo richiedono. E' uno di quei tavoli che per la loro posizione strategica ha sempre un segnaposto che reca la scritta "Riservato" e una sera un uomo chiese alla propria fidanzata di sposarlo proprio qui. Mi rimase impressa negli occhi, quella scena. Avevo circa vent'anni, mi trovavo a Parigi per l'estate, ero venuta a passare qualche settimana con i miei. Me ne stavo appollaiata dietro il bancone, giocavo svogliatamente con l'orlo della maglietta facendo vagare lo sguardo tra il ragazzo biondo seduto al tavolo davanti a me e la tavolata di amiche che festeggiavano un addio al nubilato. Ridevano, bevevano, ridevano più forte, "Il miglior vino italiano che avete! Per la sposa!", un'esplosione di applausi. Ho sempre avuto la sensazione che la sala si animi di un proprio carattere: c'è la sera in cui solo un chiacchiericcio sommesso e il tintinnio dei bicchieri sfuma un pacifico silenzio e c'è la sera in cui la febbre ubriaca di un tavolo di trentenni infiamma gli altri tavoli con un continuo scrosciare di risa e brindisi. Scribacchiavo qualche pagina, tra un vassoio e l'altro, osservando i personaggi che vivevano qualche ora del loro tempo davanti a me. Mi chiedo se si sentissero studiati. E poi di colpo, quell'uomo aprì una scatolina di velluto nero davanti alla sua fidanzata, in abito da sera, e tutto il locale si commosse con loro, congratulandosi, offrendo champagne. Questo tavolo ha donato una piccola gioia, o forse più di una. Chissà quante cose questi tavoli hanno sentito essere confessate o taciute.
"Adesso capisco perché quando sono venuto qui una volta, tua mamma mi ha dato questo tavolo. E' il tuo preferito."
"E' un tavolo speciale, questo." sorrido prendendo posto davanti a lui, mentre si toglie il cappotto e lo appoggia accanto a sé. Si volta, gli avambracci sul tavolo e gli occhi a osservare qualcosa in giro per la sala. Non un particolare, ma tanti piccoli dettagli su cui sposta lo sguardo. "Non ho mai visto il ristorante deserto." commenta. Dalla parte opposta del locale, solo i camerieri che si preparano per l'inizio del turno.
"Sono curiosa di sapere chi è l'aspirante chef di cui hanno parlato i miei. Sarà sicuramente qualcuno di folle." rido e Alex con me.
Mia mamma ci raggiunge, su un vassoio nero tre bicchieri di vino bianco e gli stuzzichini preparati da uno dei cuochi. Allungo subito le dita verso uno dei piattini, mentre Alex mi guarda divertito rubandomi la tartina che avevo puntato. "Bitch." gli mimo con le labbra.
"Allora, raccontatemi com'è la nuova casa!"
Il mio nuovo appartamento parigino è stato un acquisto pagato, più o meno in buona parte, con i ricavi dei miei ultimi libri. Era un sogno nel cassetto, quello di poter avere un posto tutto mio a Parigi e ora che io e Alex viviamo insieme negli Stati uniti, è bello poter passare del tempo da soli anche qui, senza doverci rintanare nella camera a casa dei miei genitori come due adolescenti. La mia mansarda è stata chirurgicamente ripulita e svuotata di tutto ciò che volevo avere nel nuovo appartamento, un bilocale estremamente luminoso da cui poter osservare la pioggia nei giorni uggiosi e poter rimanere sdraiati sul divano con una birra in mano e le dita di Alex ad accarezzarmi i capelli.
"Non è male come credevi?" ride mia mamma mentre Alex la guarda interrogativo, così che lei spieghi "Fu la prima cosa che Beth disse quando entrammo nella nostra casa a Sheffield, quando ci trasferimmo." Imbeve le labbra nel vino "Entrò e disse che non era così male come pensava, poi corresse il tiro dicendo che dalle foto sembrava peggio."
"Era così, mamma. E poi ero giovane, ora sono cresciuta."
Alex mi sorride con dolcezza. "Questa volta la casa le è piaciuta subito."
"E' stato un ottimo acquisto." confermo, annuendo.
Il vino bianco mi sfiora le labbra e scende in gola, scaldandola docilmente. E' come se oggi il mondo là fuori fosse lento, calmo, privo di problemi. Lo specchio di Alex, rilassato davanti a me.
"Cosa si dice dall'altra parte dell'Oceano?"
Mia mamma ha sempre avuto l'abitudine di definire gli Stati Uniti il "Nuovo Mondo" o la "terra al di là dell'Oceano" anche parecchi anni dopo la sua scoperta. A volte penso sia una sfumatura tutta francese del suo eurocentrismo. "Niente di speciale," poso il bicchiere sul tavolo "i ragazzi hanno finito il tour, io sto raccogliendo le idee per il prossimo libro..."
"E ci godiamo un po' di relax. Finalmente." sospira Al giocando con il bordo del tovagliolo.
"Sei stanco, caro?"
Annuisce, serio. "E' stato un anno intenso." pronunciando queste parole mi cerca con lo sguardo, i suoi grandi occhi scuri sembrano abbracciarmi. "Miles dice che ne abbiamo fatte succedere di tutti i colori e forse è così." scrolla le spalle e il ciuffo si sposta sulla fronte "Però non c'è niente di meglio di potersi svegliare all'ora che vuoi, a casa tua, e non avere nient'altro in programma se non fare ciò che vuoi."
"E' un privilegio che ti meriti. Ora devo lasciarvi, tra dieci minuti arriverà la prima prenotazione. A breve arriverà il pranzo." mia mamma si allontana e rimaniamo uno davanti all'altra a fissarci negli occhi, le mani stese sul tavolo che si sfiorano impercettibilmente.
"Ho dimenticato una cosa." sussurra, quasi a volersi nascondere "Mi posso svegliare all'ora che voglio, a casa mia, con te vicino. E andare a dormire, con te vicino. E far finta di andare a dormire e non lasciarti dormire." La dolcezza con cui lo dice è inestricabilmente legata a uno sguardo malizioso che sembra spogliarmi lascivamente, come se volesse mordere ogni centimetro del mio corpo ordinandomi di fare piano, di non farmi sentire. Sono totalmente, irreparabilmente, persa in lui. Sento le mie guance avvampare, Dio!, sono tornata a essere un'adolescente che brontola per la sua nuova casa ad Highgreen.
"Smettila." fingo di essere seria.
"Ti sto mettendo in imbarazzo." un sorriso sghembo gli taglia le labbra che schiude, passando la lingua sul labbro inferiore "Ti sto imbarazzando, Connell?"
"No, Turner." reprimo, senza successo, un risolino.
"Per fortuna," ultima il contenuto del bicchiere, rigirandolo tra le dita "sennò questa sera ti farò morire di imbarazzo."
Un brivido mi percorre la schiena, il cuore accelera. "Ah, sì?"
"Adoro non farti dormire." mi fa l'occhiolino per poi spostare lo sguardo alle mie spalle, dove la cameriera sta arrivando con due piatti abilmente in bilico sui palmi aperti "Grazie." le sorride, guardandola in volto.
"Non te ne rendi conto?" domando prendendo la forchetta, appena la ragazza si è allontanata.
"Di cosa?"
"Di quanto sei... Profondo."
"Cosa intendi?"
Scuoto la testa. "Non lo so, è un pensiero su cui devo riflettere su. Posso dirtelo stasera? La sera trovo meglio le parole."

Giro il cucchiaino nella tazzina del caffè dopo un abbondante e prelibato pranzo. Fuori, la luce polverosa si è fatta ancora più bianca e sonnacchiosa, come accade verso l'una di pomeriggio di giornate del genere.
Io e Al stiamo parlando di Miles quando una mano mi batte sulla spalla e lui guarda dietro di me con uno strano misto di curiosità e sospetto. Mi volto e davanti a me il mio sguardo incornicia un corpicino esile e in fermento, due grandi occhioni azzurri e i capelli neri raccolti sotto il cappello da cuoco, le braccia allargate pronte a stringermi. "Beeeeth!" un suono acuto quasi mi perfora i timpani, mentre un abbraccio festoso mi accoglie rapidamente.
"Charlie!" esclamo di rimando lasciandole un bacio sulla guancia "Cazzo! Come stai?"
"Una favola, non mi vedi?" fa una giravolta "Gli zii mi hanno portata qui con loro, sono un'aspirante chef e l'inquilina della tua camera da letto." precisa con un sorriso.
"Mi avevano detto avrebbero ospitato un'apprendista, ma non sapevo si trattasse di te."
"Volevo farti una sorpresa, porca miseria, da quant'è che non ti vedo? Sei sempre laggiù dove fa caldo... Ci vai in spiaggia, vero? Aiuta per l'ispirazione?" fulmineamente il suo sguardo vivace sembra ricordarsi di qualcosa che è impossibile non ricordare e con un'urgenza quasi ossessiva si volta di scatto verso Alex "Lui è il motivo perché non ti si vede più." lo indica con l'indice teso a mezz'aria che non accenna neanche un segno di imbarazzo. Prendo la sua mano tra le mie e sorrido "Al, questa è Charlie, mia cugina."
Allunga la mano, con un sorriso un po' intimorito "Piacere Ale – "
"Lo so chi sei. Da quando pensi di avere bisogno di presentazioni? La tua fama e il tuo gel ti precedono. Io sono Charlie."
Alex rimane impietrito e si risiede prontamente, mentre Charlie prende posto in mezzo a noi. "Devo raccontarti un sacco di cose!"
"Come ti trovi qui?"
"Bene," annuisce "lavoro tanto ma mi piace. Lo sai, io non sarei stata portata per l'università, non è proprio cosa per me. Così invece faccio ciò che amo e sono in famiglia."
Percepisco Alex che sta seduto con aria impassibile per non dare motivo all'uragano-Charlie di entrare in azione, ma tutto questo si rivela inutile perché la mia cuginetta diciottenne, un concentrato di sagacia, cinismo e parlantina spedita, non è intenzionata a mollare la presa su di lui.
"Cazzo, Beth, comunque tra le due quella che ha più cose da raccontare sei tu. Sei finita con l'uomo dell'anno." sorride divertita "Turner, ti hanno messo in nomination per gli NME tra gli eroi dell'anno e te la giochi con Gallagher. Niente male. Sicuramente tu faresti un discorso più poetico di lui sul rock. Vuoi spaccare anche qualche microfono per loro?"
Nascondo una risata, mentre Alex si scioglie appena, forse mettendo su la maschera che lo aiuta a combattere la timidezza. Forse, ha solo capito che Charlie non lo fa con cattiveria, è semplicemente una ragazza piena di vita che non ragiona prima di parlare. "Ci proverò, Charlie. Se lo vinco, lo dedico a te."
"Sarebbe carino da parte tua."
"Charlie è un soprannome?" eccolo, pronto a fare domande, a iniziare un botta e risposta di quelli in cui lui ama condurre il gioco.
"Sì."
"Come ti chiami?"
"Charlotte. Ma Charlie fa più figo, tipo nome da vera dura. Adesso vuoi anche sapere il mio secondo nome e il codice fiscale?"
"Per ora mi accontento." è il suo turno di svelare la dentatura perfetta in un sorrisetto.
"Te l'hanno mai detto che hai davvero una faccia da schiaffi?"
Annuisce. "Tua cugina," mi indica con l'indice "me lo ripete quasi ogni giorno."
"Ti sei preso la migliore della famiglia." Charlie mi guarda con occhi carichi di ammirazione "Mia sorella è una rompi palle di prima."
"Charlotte!" la riprendo sgranando gli occhi.
"Che tipo è?"
Charlie si sistema meglio sulla sedia apprestandosi a fornire una descrizione esaustiva ad Alex "E' l'opposto di Beth. Se ne sta a casa perché è vicina a nostra mamma, non fa niente di interessante e non ha una passione. Io ad esempio a cantare sono un disastro e a suonare uno strumento pure, ma sono brava a cucinare e non me la cavo male a ballare, anche se tu... Beh, come ballerino sei quasi inarrivabile." gli scoppia a ridere in faccia senza riuscire a trattenersi, mentre Alex abbassa lo sguardo con un sorriso storto "Le mie compagne di scuola ti chiamano Alex The Pelvis. Con un colpo d'anca le fai sospirare tutte, diamine, contieniti!"
A queste parole rido anche io, pensando a quanto Alex sia cambiato sul palco e abbia acquistato quella carica erotica, quella coscienza di sé e del suo corpo che davvero fa sospirare come delle liceali in piena crisi ormonale. E' come se avesse la più totale percezione del suo corpo e di come renderlo il più affascinante possibile. A volte, quando accenna qualche movimento di danza sul palco, mi fa genuinamente ridere perché per me rimane il ragazzino con il cappuccio della felpa sulla testa che non riesce a guardare il pubblico e tiene la chitarra troppo vicina al torace. Tutto in lui trasuda sensualità, anche come fuma una sigaretta con quell'aria incurante da duro.
"Avrete un bambino?" domanda Charlie con lo sguardo perso in aria, come a catturare al volo pensieri sconnessi che le affollano la mente, come un bambino che cerca di afferrare una farfalla colorata.
"No, Charlie."
"Stavo pensando che verrebbe fuori un tizio parecchio bravo con le parole. Forse un po' sfigato, però un tipo tosto. Un Sheldon Cooper umanista."
"Perché un po' sfigato?" domanda Alex con tono quasi risentito, come se questo bambino fosse una questione di cui dover discutere.
"Perché passerebbe tutto il tempo a leggere, scrivere e suonare. Voi due la croce dell'introspezione, della malinconia e dei film mentali ve la portate sulle spalle, eh."
"Non pensavo fosse ereditaria." commenta l'altro.
"Anche se non fosse ereditaria, avere per casa voi due non aiuterebbe."
"E tu cosa ne sai?"
"Scommetto che quando vi rilassate state coricati su una qualunque superficie piana – perché lo so che tu stai anche coricata sui tappeti" mi indica "ascoltando musica. Magari quella che suoni tu, caro il mio frontman."
Io e Alex ci guardiamo, in effetti ci ha preso in pieno.
"E poi, finalmente ti sei preso una come te. Ma io dico, quell'americana che ha un iPhone come prolungamento del corpo dove te l'eri trovata? Soprattutto, quando fai uscire l'album con Kane? E' troppo tempo che non vi si sente, io non ho sempre la disponibilità economica di pagare per concerti in cui magari fate una canzone insieme e tu spunti dal backstage con il giubbotto di pelle e il tamburello, manco fossi Liam Gallagher."
Un fiume in piena di parole e il cappello si muove sui suoi capelli neri a ritmo dei movimenti fluidi e vivaci.
"Ah, a proposito: sul letto dove io dormo non ci avete fatto niente di sconcio, vero? Perché sennò farò cambiare il materasso alla zia."
"Charlie, non essere sciocca." le do un buffetto.
"Anche se fosse, potresti vantarti con le tue amiche che Alex The Pelvis ha dato spettacolo dove dormi tu." ridacchia Alex tamburellando con l'indice sul labbro inferiore.
Charlie arriccia il naso. "Ho capito, chiederò con il mio prossimo stipendio di farmi cambiare materasso."

Lascio cadere il cappotto sul divano e mi dirigo in camera, dove il letto è rimasto disfatto da questa mattina. Mi svesto rapidamente, rannicchiandomi sotto il piumone blu notte. Alex mi raggiunge poco dopo, a piedi scalzi. Si ferma davanti a me, dandomi le spalle e guardando la copertina del vinile che giace vicino al giradischi. Osservo le sue spalle forti abbracciate dalla maglia a righe che si appoggia, molle, sui pantaloni scuri e attillati che non possono che mostrare il suo fondoschiena perfetto. Sorrido, nascondendo metà del viso sotto le coperte. Canticchia una melodia con le labbra socchiuse, i capelli tirati indietro brillano incontrando i raggi gialli della lampada nell'angolo della stanza.
"Charlie è proprio folle." commenta accennando un sorriso e voltandosi.
"Lo è. Ma è una ragazza in gamba."
"Non avrei mai detto il contrario. Mi piace." alza le mani come in segno di resa, poi le incrocia davanti a sé e sfila la maglia. La luce sembra solleticare le linee degli addominali appena accennate sulla pelle bianca, in questo momento vorrei farmi luce per poterle sfiorare e baciare con la stessa delicatezza. Fa la stessa cosa con i pantaloni e si infila sotto le coperte vicino a me, prendendomi tra le braccia con dolcezza.
"Devo dirti una cosa."
Parlo con le labbra appoggiate al suo petto, inframmezzando le parole con dei leggeri baci a fior di pelle che ricambia, appoggiando il mento alla mia fronte e giocando con le dita con i miei capelli lungo la schiena. Il mio seno è a contatto con la sua pelle e i palmi delle mani, caldi, di quando in quando sembrano cullarmi, percorrendo verticalmente la superficie della mia schiena, dalle spalle fino all'orlo degli slip.
"Dimmi."
"Qualche settimana fa ho prenotato un nuovo tatuaggio."
"Ok. Cosa sarà?"
Bacio la sua pelle perfetta. "Inizialmente pensavo mi sarei tatuata il tuo nome, ma sarebbe stato troppo scontato." Lo sento annuire "Quindi ho deciso che mi tatuerò Mardy Bum. E' il nostro soprannome, è tutto quello che ci racchiude. E' il nostro passato e continua a essere il nostro presente."
"Ho solo una richiesta." afferma e la sua voce si è fatta più profonda.
"Quale?"
"Voglio venire con te, a vedere mentre te lo fanno."
Lo guardo intensamente negli occhi, baciandolo e lasciando scorrere i polpastrelli sulla sua mascella. Mi sorride, appoggiando ancora le sue labbra alle mie. "Cosa dicevi oggi, riguardo al fatto che sono... Profondo?"
Cerco le parole, tra quelle che non ho mai saputo dire o dirgli. Le mie labbra rimangono sulle sue, così che sussurrando possa sentirmi e parlando io possa continuare a sfiorare la sua bocca.
"Sei profondo... Hai così tanto, sei così tanto per me, Al... Ogni tuo singolo movimento mi richiederebbe giorni di scrittura per provare a descriverlo. Il tuo sguardo, il modo con cui tocchi le cose, il modo in cui mi sfiori. Io ti osservo ogni giorno e non mi sembra mai abbastanza. Vorrei avere delle ore in più da passare immobile a fissarti. Eppure non è mai abbastanza. E' come se fossi costantemente affamata di ciò che sei."
Mi osserva, studia i miei occhi e mi bacia con trasporto. Rimaniamo immobili, i nostri corpi aderenti e tremanti come se avessimo appena svelato un mistero, come se ci fossimo appena strappati l'anima.
"A volte penso sia frustrante non riuscire a trovare le parole perfette per la canzone perfetta per te. Eppure ogni giorno mi sveglio, ti guardo, e voglio trovarle."
Lo ascolto, rapita e immersa in quei due mondi scuri, profondi e intensi, folli e meravigliosi. Non c'è una singola parte di lui che non ami. Passo il polpastrello sul suo labbro, disegnandone i contorni.
"Alex Turner, vuoi fare l'amore con me?"  

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