But if you are, I'm quite alright.

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La bandiera a stelle e strisce – tanto grande che mi ci potrei avvolgere dentro – è appesa mollemente al muro davanti a me.
LAX Airport, e uno scricciolo dai capelli scuri che sventola la mano in aria sorridendo. Vorrei averle la forza di correrle incontro, ma lei lo sa, non ce l'ho.
Alexander mi ha attaccato la mania per i cocktail e i sonniferi per superare i voli intercontinentali. Quasi mi fa sorridere, l'averlo chiamato mentalmente con il suo nome per esteso. Alexander, come si ostina a chiamarlo mia nonna. E' da non so quanto che non tolgo gli occhiali da sole e il sonno non ha fatto che contribuire a farmi svegliare più scostante di prima.
Ma c'è una mano che sventola in aria a salutarmi e senza quasi accorgermene mi ritrovo abbracciata a Bre che mi sussurra: "Bentornata, sweetie." Rimango tra le sue braccia per un po' e mi assale una gran voglia di piangere. Ma non lo faccio, non ora.
"Adesso andiamo a casa, fai una doccia, ti preparo una tisana e poi ti metti a letto a riposare".
Sono quasi le due del pomeriggio e a Los Angeles fa un caldo fottuto. Breana indossa un paio di jeans e una camicetta bianca, e si offre di prendere una delle mie due valigie mentre ci dirigiamo verso l'uscita. Una folata di aria bollente mi investe, facendomi sospirare. Saliamo in macchina, alla radio, in sottofondo, i Manic Street Preachers.
"Volato bene?"
Annuisco, sbadigliando: "Sì, ma ho le gambe a pezzi. Come sta Matt?"
"Lavoro", mi risponde mimando le virgolette con le dita, prima di dare uno sguardo allo specchietto, mettere la freccia e svoltare a sinistra. "Vuoi fare qualcosa di particolare in questi giorni? Con il nuovo anno hanno aperto un sacco di posti carini, ti ci vorrei portare".
"Perché no," sorrido, osservando la città battuta dal sole "almeno inizio a respirare un po' di aria americana... Che di quella inglese ho fatto il pieno"
Sorrido, e lo faccio spontaneamente. Breana è il tipo di amica capace di essere contemporaneamente sorella, compagna di stronzate, confidente e osservatrice attenta e severa. Le voglio bene, un bene sincero. E' il tipo di amica a cui vorresti tenere lo strascico dell'abito da sposa mentre si avvia all'altare.
"Sei sicura che non hai altro da fare?"
"La mia amica è appena tornata da Londra e non la vedo da un sacco. Sono sicura", ride, accostando al marciapiede. Casa. Nella mia mente questa parola stride e mi fa lo stesso effetto di quando stai cercando di riprenderti da una sbronza colossale, hai il mascara ancora appiccicato alle ciglia e qualcuno cerca di instaurare una conversazione spingendoti sotto gli occhi cibo e alzando la voce.
Sbuffo, cercando le chiavi nella borsa, e tirandomi dietro la valigia arrivo al portoncino d'ingresso. Due mandate, l'ingresso – così come tutto l'appartamento – riposa nella penombra creata dalle veneziane chiuse. Sul tavolo della cucina ci sono delle buste impilate, che dispettosamente colpisco con l'indice prima di spostarmi in camera da letto.
Maria, la signora che fa le pulizie a casa quando io non ci sono – generosamente pagata dal mio editore – ha cambiato le lenzuola del letto e su questo ha posato la roba che le avevo chiesto di portare in lavanderia. Vestitini, una giacca, pantaloni eleganti.
"Metti pure qua, Bre, grazie", le sorrido indicandole un punto del pavimento ai piedi del letto, dove ho già appoggiato la prima valigia, aprendola.
Cose, ci sono un sacco di cose. Me n'ero resa conto quando io e Philip ci siamo lasciati, ma ogni volta che sono in un periodo difficile e mi muovo da una casa all'altra senza sentirne mai una come mia realmente, mi accorgo di quanto siano pesanti, ingombranti, inutili questi ammassi di oggetti che vorticano insieme a me in giro per il mondo.
"Beth, tesoro, vai a farti una doccia! Io ti preparo una tisana."
"Stai tranquilla, Bre, sto bene. Sono solo un po' stanca. Torna a casa se vuoi."
"A casa mi rompo le scatole, non ho niente da fare, nessuno con cui stare. Voglio passare un po' di tempo con te, sai che mi piace accudirti."
La abbraccio, appoggiando la fronte sulla sua spalla. Mi stringe forte, accarezzandomi i capelli: "Fai una doccia, lovely, poi parliamo un po'".
Di nuovo quel groppo alla gola, le sento le lacrime che stanno per bagnarmi le guance. Ma respiro, mi allontano da Bre e afferro un vestitino per poi dirigermi in bagno. Solo quando ho chiuso la porta dietro di me e aperto l'acqua della doccia, mi tolgo gli occhiali da sole e guardo la mia immagine riflessa nello specchio. Non mi riconosco nemmeno. Gli zigomi pronunciati, le occhiaie, gli occhi che sembrano spenti. Opachi. Passo l'indice sulle labbra, facendo poi una smorfia. I miei tatuaggi sembrano risaltare oggi più del solito. Mi sento prigioniera di una me stessa che non conosco.
L'acqua tiepida e il bagnoschiuma all'olio di argan mi rinfrancano, sembrano riuscire a rallentare il corso ossessivo dei miei pensieri. E' come se tutta la mia attenzione fosse votata al semplice fatto di respirare, e farlo con cura, con attenzione. Immagazzinando la necessaria quantità d'aria nei polmoni, con calma.
Andrà tutto bene, non può che essere così.
Al starà lavorando, in questo momento, sarà impegnato. Questa sera, come molte altre sere, berrà qualcosa, parlerà di argomenti scelti casualmente nel grande archivio delle conversazioni di coppia e molto probabilmente farà l'amore con la sua fidanzata fino a guardarla addormentarsi tra le sue braccia.
Alex, in un giorno imprecisato della nostra vita, farà di nuovo ingresso nella mia. Ci saluteremo e io avrò fatto pace con questo tornado, con la tempesta.
Andrà tutto bene, ne sono certa.
Continuo a ripeterlo mentre stendo la crema profumata sul corpo. E' cambiato anche questo. Le gambe, le braccia, sembrano più sottili, più fragili. Mi chiedo fino a che punto mente e corpo possano lottare e come si sente, il corpo, quando si rende conto che è destinato a perdere e lo farà sempre.
Quando rientro nella camera da letto vedo che Bre ha già provveduto a aprire le veneziane così che la stanza sia invasa di luce e provenga un buon profumo di menta. Lei sì, che sa come viziarmi. Cammina verso di me con due tazze in mano, sorridendo: "E' pronta!"
"Solo un secondo, lasciami mettere via la roba della lavanderia".
Inizio a dividere i capi d'abbigliamento davanti a me fino a che qualcosa mi colpisce in pieno. Mio caro corpo, questa è la mente. La senti quanto cazzo fa male?
Tra le mani ho una t-shirt nera con una bandiera inglese e una scritta azzurra stampata "Triumph". Le sento tremare. E' sua, l'aveva lasciata qui una delle ultime volte in cui si era intrufolato qui e la mattina mi aveva trovata in cucina ad addentare un muffin con addosso questa maglietta. Mi disse che mi donava e che me l'avrebbe lasciata volentieri, dopo avermela tolta ancora una volta.
E ora, come una stupida ragazzina innamorata, me ne sto qui con la sua maglietta in mano a metà tra il volerla bruciare e il voler piangere.
"Beth, quella –"
"E' di Alex, Bre", asciutta, perentoria.
"Va tutto bene," appoggia le tazze sul comodino, prendendomi la t-shirt dalle mani "è tutto a posto. Ora la prendo e la metto nell'armadio, poi andiamo di là a bere la tisana".
Apre l'armadio e la lancia nello scompartimento in alto, più lontano da tutto. Poi mi prende per mano e mi conduce nel salotto, facendomi sedere sul divano e mettendomi davanti la tazza di tisana.
"Bevi", suggerisce come una mamma preoccupata "e parliamone. Come stai?"
"Io... Io non lo so, Bre. Devo imparare a conviverci, ma..."
"Ma, secondo me, avete bisogno di parlarne. O almeno di rivedervi."
Scuoto la testa: "No. Non potrei sopportarlo."
"Invece così ci riesci? A me non sembra", soffia sulla tazza "e so che sarà da solo a casa, per qualche giorno."
"E' tutto... E' tutto troppo. Questo, questa montatura. Noi che ci facciamo lo stesso tatuaggio, noi che ci rincorriamo, noi che ci guardiamo da una parte all'altra della stanza e non molliamo la presa. Mi sto ammalando, di tutto questo. E' un pensiero costante, che mi distrae da mille altre cose che vorrei e dovrei fare. Non voglio diventare una persona che non mi piace, non voglio perdere ciò che di buono ho".
"Tesoro mio," allunga una mano sulla mia gamba "non devo essere io a spiegarti o ricordarti quanto quella testa di cazzo sia importante per te. Ho chiesto a Matt di tenermelo lontano negli ultimi tempi perché so che l'avrei trattato male, sarei stata poco piacevole. E non è una cosa che mi piace essere. Alex sta diventando una persona fortemente autodistruttiva, e le persone autodistruttive... Beh... Non aiutano gli altri. Anzi. Soprattutto se si tratta di una donna sensibile e profonda come te", prende una pausa, sospirando appena "Il fatto è che non so fino a che punto Alex possa spingersi e fino a che punto tu possa sopportarlo. Ma so che vederlo, stare con lui, ora come ora potrebbero aiutarti. Perché adesso il tuo cervello sta creando scenari e ipotesi che lo riguardano, dando per scontato che lui stia bene. Lui non sta bene affatto. Matt è preoccupato per questo. E penso che la miglior medicina, siate voi stessi, l'uno per l'altra."
Sbuffo ancora, fissando un punto davanti a me.
Mi sento persa.
Mi manca Alex. Mi manca davvero.
"Pensi che dovrei andare da lui, questa sera?"
Scrolla le spalle, sorridendo appena: "Penso che tu debba fare ciò che senti. Da amica previdente ti direi di stare a casa a dormire... Ma da una che ha tatuato il nome del suo fidanzato su una gamba, ti direi di prendere un sushi e andare a bussare alla sua porta."
Scuoto il capo.
"Spero che arrivi prima che si sia sbronzato. Per l'ennesima volta. Non so quanti caffè Matt gli abbia preparato ultimamente."

Marzo inoltrato e Los Angeles, anche di sera, sembra calda come ad agosto. O forse sono la stanchezza, il cocktail preso al decollo a Londra più o meno 24 ore fa, i sonniferi, le gambe a pezzi, una maglietta di Alex ritrovata sul letto.
Non sono riuscita a dormire, me ne sono stata coricata con Breana vicino che mi accarezzava i capelli e mi svuotava la valigia. Cos'ho fatto di buono per avere un'amica simile?
Mi fermo per far attraversare un pedone con un cane bianco, sorrido appena e facendolo mi rendo immediatamente conto di quanto sono nervosa. La mia mano sul volante trema appena e dei brividi ghiacciati mi bloccano la schiena. Il mio fisioterapista mi chiederà che diamine faccio per ridurmi sempre così. Nervosismo, ecco cosa gli risponderò.
Mi sposto sulla corsia di destra, alla prossima dovrò svoltare. Le due pizze sul mio sedile emanano un profumo irresistibile, nonostante io sia molto lontana dall'aver fame. Quanto ci mette a diventare verde questo semaforo?
Un'accelerata decisa, lascio il boulevard per una strada secondaria. Questa strada. Con le palme, i marciapiedi di cemento bianco, le villette perfette e riservate, con le tende bianche, i giardini sempre curati, le siepi e le piscine. Ah, Los Angeles.
Trecento metri, un posto libero. C'è una moto – una gran bella moto... Quella gran bella moto.
Sbuffo, come se avessi fatto un favore a qualcuno, nel venire qui.
Come quando mia mamma mi chiedeva di chiamare quella sua zia di chissà quale grado di parentela che ci aveva mandato gli auguri di Natale con un biglietto sempre uguale sbagliando anche il mio nome. Grazie zia, grazie per il pensiero! Sei sempre così gentile. Stronzate, cazzo. Non mi chiamavo mica Betty.
Il mio dito si posa sul campanello, tremante. Nel guardare il cancelletto, mi rendo conto che è socchiuso. Magari aspetta qualcuno. Matt, Jamie... Arielle. No, Arielle non è LA.
Lo spingo con cautela, facendo ingresso nel vialetto e richiudendomelo alle spalle. Nella tana del leone. Complimenti, Beth. Mossa da maestra. Com'era la storia dell'autoboicotaggio? Comunque suoni, cazzo, sei una giocatrice di classe.
Arrivo al portoncino. Io, lui e le porte che ci dividono. Ormai siamo una costante.
Suono al campanello.
Sento dei passi avvicinarsi, apparentemente calmi.
La porta si apre davanti a me rapidamente e compare la sua figura. Ancora impegnato a guardare qualcosa dietro di sé, mi rivolge lo sguardo solo una volta che la porta è aperta totalmente.
Ha un paio di jeans e una t-shirt a righe bianche e blu. I capelli ancora non del tutto asciutti, con il ciuffo che gli ricade sugli occhi che sono grandi, così grandi.
Li vedo guizzare in un moto di sorpresa, un sorriso incredulo gli modella plasticamente le labbra, che rimangono socchiuse, senza emettere suono.
Forse non riesce neanche a emetterlo.
"Beth..."
"Pizze e birra, posso entrare?"
Fa un passo di lato, indicandomi l'ingresso: "E lo chiedi?"

A piedi scalzi, cammina sul parquet davanti a me, fermandosi vicino al bancone della cucina.
"Non ti aspettavo, non credevo..."
"Non lo credevo neanche io", sorrido. La mia mano, sotto i cartoni delle pizze, sta tremando e prego il cielo che non mi abbandoni proprio ora facendomi rovesciare tutto a terra. Alex sembra capire, allungando le braccia verso di me: "Dammi, appoggia qui. Non dovevi disturbarti."
"Figurati", non riesco a smettere di sorridere come un'idiota "almeno sono sicura che mangi".
"Ah, avrei detto la stessa cosa io di te", ride nervoso.
"Vorrà dire che ci controlleremo a vicenda".
"Siediti," scosta uno sgabello dalla penisola davanti ai fornelli "almeno mangiamo finché sono calde". Lo accontento, non prima di aver estratto due lattine di birra dalla borsa che avevo appesa al gomito.
Siamo seduti uno davanti all'altra, concentrati sulle lattine come se fossero la cosa più difficile da aprire, come se non ne avessimo mai vista una prima. Penso che siamo sufficientemente buffi, se visti dall'esterno.
"Ti ho disturbato?" domando.
"Oh, no... No, non affatto... Io... Non avevo programmi per questa sera. Matt è con Bre, i ragazzi li ho visti oggi... Avrei passato una di quelle serate da sfigato delle mie", sorride compiaciuto verso la sua lattina finalmente aperta "sei tornata oggi?"
Annuisco, "Già, Nuovo Mondo eccomi!"
Ride con quella risatina spontanea tutta sua che non riesce a trattenere, aprendo il cartone della pizza e raggiungendo subito la prima fetta con le dita pallide. Guardo anche io la mia, chiedendomi se riuscirò a mangiare o sverrò per l'ansia.
"Forse dopo tutto l'America non è mai stata scoperta, è stata semplicemente individuata" cito sovrappensiero, cercando di ingannare tutto quello che mi sta vorticando in testa.
"Oscar Wilde", sorride. "Alla fine Colombo era solo uno che si era perso."
"Non la conosco, questa" aggrotto le sopracciglia.
"Era su un graffito a New York, era l'unica cosa che mi veniva in mente".
Scoppio a ridere, altrettanto spontaneamente. Come fa, a essere così? Non riesco a descriverlo e questa cosa mi ferisce.
"Sei nervosa?"
Annuisco.
"Lo sono anche io", nasconde il rossore delle guance – o almeno ci prova – abbassando lo sguardo e addentando la sua pizza.

"Ti va, un whiskey?"
"Perché no, grazie."
Mi sposto sul divano, camminando calma. Ho abbandonato le mie Adidas vicino allo sgabello, e ora zampetto silenziosamente al divano, guardando Alex che prende due bicchieri e in quelli versa il whiskey che mi ha offerto. Sul tavolo i cartoni delle nostre pizze, una crosta di pasta avanzata (da me), le lattine finite (da noi) e un tovagliolo di carta arrotolato in una pallina (da lui). Abbiamo parlato di cose in generale: del mio volo, del loro album; della mia macchina, della sua moto; della mia casa californiana, della casa dei suoi a Sheffield. Tutte quelle cose che mi interessa sapere, anche se non sono – o non dovrebbero essere – il nostro argomento principale. Tutte quelle cose che forse, di un'altra persona, non mi interesserebbe neanche conoscere, ma di Alex mi piace sapere. E non solo perché sono parte di lui, ma anche perché posso sentirlo parlare, posso osservarlo mentre avvicina la lattina alle labbra con il gomito alzato e sorride: "Nella mia cameretta ci faranno un museo, se andiamo avanti di questo passo".
Mi si siede accanto, allungandomi il bicchiere di vetro tozzo. Sorride, complice ma imbarazzato; complice nell'imbarazzo.
"Grazie", tutti questi convenevoli sembrano quasi strani, quando tra noi a volte basta un grugnito.
"Bre mi ha detto... Che non sei stato troppo bene ultimamente..."
"Anche Miles l'ha detto di te"
"Maledetto stronzo, mai una volta che stia zitto", rido.
"Io.. Tu mi sei mancata, Beth."
Boom. Un pugno nello stomaco.
"Mi sei mancato anche tu". Istintivamente allungo la mano verso le sue, tra le sue. Sono fredde, fredde tanto quanto le mie. Mi accarezza le dita con dolcezza, sorseggia un po' di whiskey, ritorna a guardarmi negli occhi.
"Non dovrebbe essere così strano per noi, no?"
No, non dovrebbe. Accarezzo il palmo della sua mano grande, le dita affusolate, lo faccio sorridere.
"No, ma un po' lo è".
"Già", imbeve le labbra nel whiskey. "Sono stato un coglione."
Mi si mozza il respiro, ma sbatto le palpebre e mi concentro solo sulla sua voce, come quando nei film l'inquadratura si concentra su un dettaglio e man mano allarga il campo e senti – dritta nelle orecchie – la sola voce della coscienza del personaggio, che parla, si confessa, crolla, si riprende, ragiona.
"Sto rovinando parecchie cose... Ho mancato di rispetto a te, a ciò che sei –"
"A te stesso. Stai mancando di rispetto a te stesso. Io sono solo una conseguenza".
Ora le sue dita si intrecciano alle mie, sembrano aggrapparsi.
"Guess you're right".
"Non sono nessuno per farti la predica, nessuno per dirti cosa dovresti fare... Anzi. Però, Al... Non possiamo distruggerci così."
Sta in silenzio, fissando le nostre dita. Mi avvicino a lui con il corpo, rannicchiandomi sul divano. Mi sento piccola, vorrei poterlo abbracciare. Ma in questo momento è solo, nel suo fluire di pensieri. Pensa e ripensa al passato, si fa del male, si maledice. Magari gli scappa anche una bestemmia, mentre si chiede come mai non ha riempito di più il bicchiere, perché ha questa strana nausea – sarà la pizza di sicuro, da quant'è che non mangia come una persona normale? –, perché sta tenendo la mia mano e perché è così fredda.
Magari si ricorda di quanto erano fredde le mie mani nei giorni di Sheffield, in cui non mettevo mai i guanti e d'inverno mi si aprivano piccoli tagliettini sulle nocche e risaltavano ancora di più, data la mia pelle bianca. A volte, seduto di fianco a me, li indicava chiedendomi se non mi dessero fastidio. Scrollavo le spalle, fingendo che fossero una cosa da niente. E lo erano, ma davano un fastidio fottuto, soprattutto quando dovevo chiudere la mano intorno alla biro e scrivere pagine intere. Magari sta pensando a quei tagliettini, o al guanto che mi dava quando mi offriva un passaggio in moto. Se ne toglieva uno e me lo allungava. "Ma così avremo comunque freddo tutti e due", gli facevo notare. "Mmm, sì, ma a una mano meno che all'altra", mi sorrideva di rimando, premurandosi che mi agganciassi a lui.
Magari non sta pensando proprio a un cazzo di tutto questo. Forse si chiede di che marca sia il whiskey – ne finisce tante bottiglie in pochi giorni, com'era quella marca che gli piaceva? – o avrà iniziato una dissertazione mentale tutta sua sui graffiti di New York. Ce ne sono di belli. Valerie, una delle mie amiche conosciute qui a Los Angeles, viaggia in giro per il mondo e fa un sacco di foto ai graffiti, all'arte di strada. Ogni volta che la vedo poi le canticchio Valerie, la versione di Amy Winehouse. Dio, Amy. Quanto mi manca.
Tra noi immagino sia calato il silenzio, ma continuo a coprirlo con la voce nella mia testa, con i pensieri, le immagini. Con le sue mani che mi stringono al mattino, appena sveglio. Con la sua risata nell'altra stanza quando dico qualcosa che lo fa ridere e magari mi prende anche in giro. Con tutto ciò che siamo.
La sua stretta si fa appena più forte. Forse, nei suoi pensieri, è inciampato in qualcosa che non riesce a evitare.
"Scusami, Beth".
Annuisco, ad accettare le sue scuse.
"Non puoi cancellare ciò che sei, ciò che hai. A te piace stare seduto a scrivere, a te piace –"
"Io non piaccio a me stesso, Beth. Ma tutto ciò che tu fai, tutto ciò che abbiamo sempre fatto insieme... Scrivere, farci domande impossibili, bere un whiskey o un bicchiere di vino e addormentarci sul divano... Le adoro, Beth. Adoro te".
Di nuovo quel groppo in gola. Ti adoro anche io, testa di cazzo. Con devozione, con rispetto e attenzione. Bacerei ogni singolo taglietto sulle tue mani, ti darei i miei guanti, ti comprerei pizza e sushi ogni sera, pur di saperti, non dico proprio felice, ma almeno sereno. Perché dovresti amare te stesso, il te stesso vero.
"Perché sei cambiato così?", la mia voce si è incrinata e chiedo a me stessa di non piangere, non dopo che sono riuscita a resistere per un giorno interno.
"Perché..." un sorrisetto sarcastico gli si dipinge in faccia "perché sono una gran puttana. Perché" mi sembra di vederlo, mentre con sadismo indossa la sua maschera da artista maledetto "alla fine qui puoi diventare cosa vuoi. Abbiamo i soldi, abbiamo la nostra musica, il disco verrà parecchio bene... Insomma, da un ragazzino in polo e giacca della tuta, cosa vuoi tirarci fuori?"
"I testi migliori degli ultimi anni. Il ragazzino in polo e giacca della tuta è uno dei migliori songwriter di quel cazzo di Paese che è l'Inghilterra."
"I testi devono avere un bel faccino che li canti. E quel bel faccino deve vendere dischi e possibilmente alimentare la libido delle donne. E anche degli uomini, perché no", ride facendomi l'occhiolino.
"Ok, ci sono", faccio per staccare la mia mano dalla sua, ma la stringe, come a chiedermi di rimanere lì "questa è la spiegazione che non dai a chiunque, ma insomma, a qualcuno la dai. Qualcuno di fidato che ti chiede cos'è successo, tu spiattelli questa cosa, che ha sicuramente del vero, e magari ti guadagni anche uno sguardo compassionevole. Ma non è la risposta per me, Al. Non questa".
Sospira. Forse quel guanto, sulla moto a metà gennaio, non me lo meritavo. Non mi meritavo neanche le sue dita a portarmi i capelli dietro l'orecchio, il suo pollice sulle guance ad asciugare le lacrime quando piango. Non meritavo nemmeno una canzone, figuriamoci un suo testo. Perché, in fondo, cosa voglio ancora da lui? Chi sono per volere queste spiegazioni?
"Sono stronzate, che il successo non ci cambia. Ci cambia eccome, cazzo", ingolla tutto il contenuto del bicchiere, per poi appoggiarlo sul tavolino davanti a sé "E io sono come un bambino che a Natale ha ricevuto troppi giochi. Ne ha ricevuti di bellissimi, incredibilmente costosi, colorati, pieni di funzioni che gli fanno essere chi vuole. Può essere chiunque, può fare ciò che vuole. Chiede, e gli viene dato. Senza sforzo. Solo perché è andato a scuola e ha preso un buon voto, solo perché ha fatto qualcosa, magari un disegno, colorato particolarmente bene. Non ha meriti, ha solo fatto ciò che gli veniva istintivo, quasi naturale. Io sono così. Sono quel bambino", indica con il mento qualcosa davanti a sé "Ho ricevuto un sacco di cose, sono stato sballottato in giro per il mondo, mi hanno chiesto e hanno sempre ottenuto. Capelli lunghi, corti, una maglietta, un giubbotto di pelle, i mocassini... Cosa mi cambia? Se è l'adattamento, che ci vuole, per poter continuare ad avere giocattoli, allora non è poi così tragico. Il problema è che, come quel bambino, io non so chi sono. Non so cosa voglio, non so come mai mi sono ritrovato qui. Cos'ho fatto di speciale?" scrolla le spalle "A uno sfigato un po' nerd con una polo e la tuta, devi lasciar fare quello. E basta. Se vuoi altro, vuol dire che ciò che faccio, non lo faccio abbastanza bene. E' come prendere quel bambino e dirgli 'Carino il disegno, uno dei migliori della classe! Perché ora non ti fai fare i boccoli e non ti vesti da idiota e sorridi alle bambine della classe?' e lui potrebbe chiederti 'Sì, ma perché? Il disegno non è abbastanza bello?' 'No, cazzo, è una bomba. Ma sai come vanno queste cose...'"
Sembra si sia svuotato di un peso. La sua mano crolla nella mia, pesante.
"Al..."
Mi sento colpevole, di aver tirato fuori tutto questo. Di aver infierito, di aver scavato, pezzo per pezzo. Ma mi sento anche sollevata, come se lo stesso peso l'avesse tolto anche a me, preso e gettato lontano. Da lui, da noi. Anche dai nostri whiskey e dalle nostre pizze.
Mi rivolge lo sguardo e i suoi occhi sono liquidi. Non piange, Alex non piange mai, ma hanno qualcosa di ancora più struggente. Istintivamente mi avvicino a lui, accogliendolo nelle mie braccia. Siamo anche questo, uno per l'altra. Un rifugio, quella zona franca in cui si fa pace, si depongono le armi, ci si toglie l'armatura, e ci si stringe. Di più, più forte. Più vicini.
Lo abbraccio e mi sembra la cosa più bella e intima che potrei fare. Accarezzo la sua schiena, mentre lui appoggia la fronte sulla mia spalla. E' debole, e si è arreso, qui, con me.
"Sai cosa direi a quel bambino?" gli parlo con un filo di voce, nell'orecchio, sussurrando "Gli direi che il motivo per cui le persone importanti della sua vita lo amano, è proprio per la sua abilità di fare quei disegni così belli. Così colorati. Per il suo essere se stesso, per ciò che ha sempre mostrato senza filtri. E gli ricorderei che quei giocattoli, per quanto siano numerosi, se ne andranno. E a volte se ne vanno anche in fretta. Per questo chi lo ama davvero, non lo lascerà mai solo, nonostante lui stia facendo il bulletto della classe", sorrido teneramente, stringendolo a me "e la sua compagna di classe, quella senza guanti, gli porterà sempre una pizza e una birra. Adoro te più di qualunque altro essere esistente sulla faccia della terra, Alex."
E poi lo fa, si volta e mi prende il viso tra le mani. E mi bacia, appoggia le sue labbra alle mie e mi bacia. Con prudenza, come se potessi rifiutare, come se potesse farmi male. Le sue dita, sul mio viso, tremano appena.

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