Capitolo 20

4.4K 146 4
                                    


KYLE

"Non sto superando alcun limite. Ti sto solo chiedendo perché c'è questo divieto. Ti sto solo chiedendo perché ti incazzi tanto se qualcuno prova ad entrare nella tua stanza. Non sto cercando di ripararti o di entrare nella tua testa. Ti sto solo chiedendo questo" mi impongo perché almeno una risposta pretendo di averla.

Si lascia cadere sul divano e si passa le mani sulla faccia. Io mi siedo al suo fianco, aspettando una risposta.

"C'è un casino infinito nella mia testa e...per cercare di liberarmi ho riversato tutto nella mia stanza. Entrare nella mia stanza significa entrare nella mia testa" mi spiega con poche parole.

"Nessuno è mai entrato nella tua camera?"

"Solo io, il mio gatto e Ginevra".

"Di lei ti fidi?"

"No, ma lei non fa domande. Comunque può entrare solo con il mio permesso, ma non ci sono mai problemi perché è quasi sempre chiusa a chiave".

"Io avrò mai il permesso di entrarci?" le chiedo sorridendo un po', cercando di alleggerire la domanda, anche se io sono assolutamente serio.

"Chissà! Bisognerà vedere se sarai in grado di meritarlo" dice anche lei sorridendo, poi torna seria, come se stesse pensando a qualcosa. "Tu...tu hai una famiglia?"

"Più o meno" rispondo io sospirando.

Non vedo la mia famiglia da tanto.

"Che significa?"

"I miei sono divorziati e l'ultima volta che ho visto mio padre andavo alle elementari. Mia madre e mia sorella le ho viste per l'ultima volta quando avevo quattordici anni".

"Quando sei entrato a lavorare per Aedus" precisa lei e io annuisco.

"Volevo cercare fortuna da solo. Sono scappato di casa e sono venuto in America, ma dopo poco mi sono ritrovato in mezzo a una strada. C'era un uomo che veniva da me ogni notte per prendere ciò che ero riuscito a racimolare e, se non glielo davo, mi pestava a sangue. Una notte mi sono ribellato e l'ho quasi ammazzato di botte. La polizia mi ha beccato e stavo per finire in galera per aggressione, ma è arrivato Aedus che mi ha tirato fuori da lì a patto che lavorassi per lui e ho accettato".

"Ti sei mai pentito?"

"Ogni giorno degli ultimi nove anni".

"E la prima missione? Cosa ti hanno fatto fare? Ricordo che quando abbiamo giocato a obbligo o verità hai bevuto per non rispondere".

Sospiro e guardo in basso. Non è stata la missione peggiore, ma è di sicuro quella che mi ha segnato di più. Quella voce mi rimbomba ancora nella testa. 

Istintivamente porto la mano sulla bandana nera che ho sempre legato al polso. Ogni volta che sono nervoso inizio a giocare con quel pezzo di stoffa.

"Non sei obbligato a parlarne se non vuoi" dice lei, vedendo il mio disagio.

Sospiro e chiudo gli occhi, poggiando la testa contro lo schienale del divano.

"Era solo il recupero di una persona. L'ho semplicemente presa e portata dove mi era stato ordinato di farlo" spiego in poche parole.

"Non mi sembra così terribile" dice lei.

"Invece sì. Vedere la sua disperazione, le lacrime agli occhi perché non voleva andare via da casa sua. Quelle grida e quel pianto mi svegliano ancora la notte".

"Era un bambino?"

"Una bambina".

"E poi? Cosa le è successo?"

HandlingDove le storie prendono vita. Scoprilo ora