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Lei ci aveva provato.
Ci aveva provato, cavolo.

Aveva lottato contro ogni parte del suo cuore corrotto, aveva gridato di no alla sua testa ostinata, la voce le si era incrinata dall'oppressione.

Si era morsa l'interno guancia finché un sapore metallico non le aveva invaso la bocca, aveva stretto i pugni fino a quando il segno delle unghie nella pelle non le sarebbe rimasto per giorni.

Ci aveva provato.
Con tutte le sue forze.
Con tutto il suo volere, che non era nulla in confronto alla sua voce.

La mente urlava, le mani agivano. Il cuore doleva nel petto, quasi volesse ricordarle di tutte quelle volte che si era rotto dopo che aveva ceduto.

Dopo che non si era tappata le orecchie.

Quando chiuse gli occhi, aveva le mani sporche di cioccolato come decine di altre volte prima di quella sera.
Aveva ceduto.
Lo aveva ascoltato.

E non si sarebbe perdonata per questo.

*


Lo psicologo li conosceva tutti.
Nome e cognome, da quanto tempo frequentavano le sedute di gruppo, perché erano lì.

Ma non sapeva cosa provavano.
Certo, scriveva parole profonde e toccanti come senso di inadeguatezza, oppure insicurezza, ma quelle parole erano tanto riduttive quanto comuni.

Tutti avevano quelle parole nel loro fascicolo.
Anche Evie le aveva.
Anche Evie conosceva ognuno di loro.

Quel ragazzo lì in fondo frequentava le sedute da tre mesi.
Si vestiva sempre così, con pantaloni della tuta grigi e una felpa nera con il cappuccio issato in testa.

Era silenzioso.
Molto, in realtà.
Non aveva mai sentito la sua voce, eppure frequentavano lo stesso luogo una volta alla settimana da più di tre mesi.

Sedeva in modo scomposto, con la schiena curva e la testa piegata in basso.
Evie pensava ogni volta che il dottore volesse fare piccoli passi avanti, cominciando progressivamente a fargli domande, ma quei passi dovevano essere davvero molto ridotti dato che erano passati mesi e non era successo nulla.

Il ragazzo, quindi, se ne stava immobile ad aspettare che fosse l'ora di andarsene, senza dire o fare nulla che lo incriminasse.

Il cappuccio gli copriva sempre gli occhi, e quando si alzava dalla sedia a fine ora, afferrava lo zaino e se lo infilava con frustrazione.

Fu proprio durante una di quelle azioni che una volta un lembo di felpa si era alzato a metà avambraccio.

Quello che Evie vide, la fece immobilizzare.

Tutto il polso bianco era percorso da piccoli tagli cicatrizzati e pallidi.
Le vene in evidenza sulla pelle squarciata le fecero male, tanto che dovette distogliere lo sguardo per non mancare.

E poi i suoi occhi caddero sul ragazzo.

Era il secondo mese che lo vedeva, ma quella fu la prima volta che lei vide i suoi occhi.
Erano dilaniati da una paura viscerale capace di farle stringere il cuore nel petto.

Si giustificavano, si scusavano, implorando perdono per qualcosa per cui avrebbero soltanto dovuto piangere.

Evie vide una tale angoscia in quelle iridi verde spento, che non provò altro che una compassione quasi malata.

Perché ti nascondi?
Perché non sorridi?
Sei così bello, così unico, eppure... Perché?

Quel giorno il ragazzo si avviò silenziosamente alla porta e uscì senza dire nulla come sempre.

Ma il peso che si portò dietro, fece scivolare nel vuoto ogni certezza della fragile mente di Evie.




La ragazza lì in fondo frequentava le sedute da 1 mese.
Era molto nervosa, e innervosiva a sua volta chi le stava in torno.

Da quando Evie la conosceva, era sempre seduta nella stessa posizione.
In punta di sedia, con la schiena dritta e la testa chinata in modo innaturale.

La mano destra era rivolta a palmo in sù, leggermente socchiuso, appoggiata sul ginocchio magro e tremolante.

Rimaneva immobile, finché ogni venti secondi la ragazza non aveva un tic. Faceva incontrare l'indice e il pollice, e poi li faceva tornare fermi come prima.
Ansia, dicevano i fascicoli del dottore.
Dolore, pensava Evie.

La mano sinistra era chiusa a pugno e stringeva qualcosa al suo interno.
Seduta così, ogni volta che la vedeva.

Le sopracciglia contratte, la bocca corrucciata.
La fronte coperta dai capelli che quasi le finivano negli occhi.

Era insicura, ed Evie la capiva, l'insicurezza.

Quello che proprio non si sapeva spiegare era il perché della sua presenza.

In quel luogo ci andavano le persone come lei, sbagliate, rovinate da un corpo che non sentivano come loro, rotte.

Quella ragazza così magra e delicata non era come lei.
Quell'altra ragazza con i capelli ramati e la felpa blu, non era come lei.
Quel ragazzo con il ciuffo scuro e il viso tempestato di lentiggini, non era come lei.
Quell'uomo si diceva psicologo, ma non capiva come era lei.

Nessuno capiva, o avrebbe potuto farlo.
Nessuno andava oltre il sorriso che Evie faceva quando incontrava qualcuno per la prima volta.
Nessuno, perché lei era nessuno.

Poteva fingere con chi non conosceva, parlando molto e ridendo a qualsiasi, infima e superficiale cosa.

Ma con il tempo quelle persone perfette di cui lei voleva circondarsi, avrebbero capito che lei non era così.

Lei non era come loro.
Lei era diversa, rovinata, estremamente brutta e inutile.
Non come gli altri.

Tornata a casa Evie si guardava sempre allo specchio.

Pensava che fosse bello poter credere che per una sola ora alla settimana, era nella stessa stanza con una dozzina di ragazzi perfetti.

Era sapere che lei non lo era, che le crepava il cuore.

Evie frequentava le sedute da 6 mesi, ma si sentiva peggio di quando non ci andava affatto.







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