Tredici

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Spero non ci siano troppi errori, l'ho scritto praticamente con gli occhi sbarrati.

È un capitolo intenso e pieno di roba perché ero presa dal momento, ispirata dagli ultimi accadimenti (are you happy to be in parì? oui) e bla bla bla.

I protagonisti (quelli veri) di questa storia mi hanno leggermente distratto.

Buona lettura, Lorena

Mancavano solo due settimane alla nostra prima competizione: il momento chiave era arrivato.

Il tempo stringeva ed io ero stressato da morire.

E lo ero stato negli ultimi due mesi, se non di più.

Perché da quando mi ero ripreso e Manuel mi aveva finalmente permesso di andare a casa, eravamo passati direttamente a preparare la coreografia per il programma corto e per il libero.

Avevamo deciso di lasciare proprio perdere il solito programma di esibizione che la maggior parte delle coppie preparava per i galà che si tenevano dopo le competizioni più importanti per mancanza di tempo.

Io e Manuel avevamo deciso che insieme, noi tre - la coach inclusa - saremmo riusciti a mettere insieme qualcosa, qualcosa di grande.

Non avevo voluto rivelare nulla ai miei prima del previsto, perciò, sarebbe stata una sorpresa per tutti.

E se imparare la coreografia era stato faticoso, per me lo era ancora più che per Manuel, abituato a quel livello di competizione da anni.

Non che glielo avessi detto o fatto capire. Perché avevo dovuto ripetere la stessa cosa all'infinito. Avevo dovuto provare altre cinquecento volte senza l'allenatrice o il coreografo.

Se qualcuno aveva trovato strano che avessi portato la mia videocamera e il mio cavalletto alle prove per filmarle, non aveva detto niente.

La coach aveva già predisposto la sua, di videocamera, per passare in rassegna i dettagli che i suoi occhi non potevano cogliere.

I miei occhi, invece, avevano bisogno di quella telecamera per ripetere i passi e le figure, di notte, nella mia stanza o in soggiorno.

Durante la settimana, mi portavo dietro mia madre o Livia, Chicca o persino Matteo, praticamente di notte - dalle dieci a mezzanotte - perché mi guardassero e mi correggessero mentre ripetevo i programmi, ancora e ancora e ancora: i miei muscoli non potevano non averli memorizzati.

Per quasi un mese, ero sopravvissuto con tre ore di sonno sei giorni a settimana.

Era stato un inferno. Uno schifo. E tutta questa fatica mi aveva messo di cattivo umore.

Ma non potevo lamentarmi, e non lo facevo. Anche se significava che dovevo cercare di non guardare allo specchio le mie occhiaie schifosamente evidenti.

Ma ero sopravvissuto, avevo superato giugno e poi luglio.

Insieme a Manuel, che mi aveva sostenuto come nessuno prima d'ora.

Ed ero sopravvissuto agli sforzi di
luglio, ero arrivato ad agosto e poi a settembre, mentre i nostri movimenti venivano analizzati, ricostruiti ripetutamente con tanta, tantissima pazienza. La perfezione era difficile. Ma nessuno di noi si aspettava o voleva niente di meno.

Quindi andavamo avanti.

Trovavo il tempo per la mia famiglia il sabato sera, e, a meno che uno dei suoi animali lo trattenesse, di solito Manuel veniva con me.

Nei rari casi in cui sua madre non poteva badare a loro per una sera, andavo a trovarlo la domenica, ce ne stavamo a casa sua, facevamo una passeggiata o guardavamo la televisione sul suo grande, comodo divano.

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