Mi chiamo Gap. Tre suoni bastano per creare un'accurata immagine di me e riassumere la mia vita con un'accuratezza eccezionale.
Adesso gioco con l'anello d'oro di mio padre. Me lo metto al dito, lo faccio ruotare e me lo sfilo, perché questo gesto meccanico e ripetitivo, alla fine dei conti, mi piace parecchio. C'è un cuore inciso – c'è sempre stato – e amo accarezzarlo col polpastrello.
Mi sento come prosciugato. Niente mi è più familiare, da qualche tempo a questa parte.
Ci penso bene. È assurdo giacere qui, in mezzo agli oggetti della seconda infanzia che ho avuto. Non mi danno più alcun conforto. Quando ero al negozio avrei fatto di tutto per dormire su un letto uguale a questo. Ma ora non vorrei altro che essere altrove.
Vivo in una scatola con il coperchio di vetro, ma dentro non c'è niente di che e, a volte, vedo i piccioni volare nel cielo. Le finestre sono fatte di quel vetro opaco che non ti permette di vedere attraverso, quindi è come se l'erba del giardino formasse una riga verde che divide il panorama circa a metà.
Non me ne andrò mai e, per sempre, starò qui. Me ne rendo conto soltanto ora?
C'è uno specchio nella mia stanza e, ogni giorno, mi rinfresca la memoria: «Non puoi farci nulla se tutto è più grande di te», ma in fondo lo so che gli specchi non parlano e che sono stato stregato dalla solitudine. Parlo da solo.
Vedo la luce entrare sprezzante e illuminare tutta la stanza. È crudele. Non vedo che dalle fessure che ho per occhi. È tutto così lucido e bianco e anche così spento, così vuoto.
Non un bacio, né una carezza, da una cosa che mi assomigli, che abbia la pelle rosea e i capelli di chissà quale colore e, magari, un bel sorriso o soltanto un'espressione di lieta rassegnazione. Sento solo il mio calore e quello vago delle coperte e poi nient'altro.
Se Zoe mi avesse amato per davvero, non se ne sarebbe andata. Continuo a cercare il suo sorriso in ogni angolo del castello, ovviamente senza mai trovarlo. Mi sembra di rincorrere il suo fantasma per i corridoi; appena mi sente arrivare, si sposta e, in questo modo, non ci incontriamo mai noi due. Se potessi, le direi che sono arrabbiato perché mi ha lasciato qui, abbandonato.
Al negozio ci raccontavamo in continuazione storie di questo genere, di gente morta che tornava indietro nel mondo dei vivi per sistemare delle faccende lasciate in sospeso. Se è veramente diventata un fantasma, allora perché non viene a tormentarmi di persona? Odio farlo da solo.
Da quando Zoe non c'è, ho scoperto una serie di piccoli posti segreti sotto i letti e dietro le porte. Potrei raccontarle storie assurde su ragni enormi che tessono le loro ragnatele negli angoli.
Ho cercato disperatamente degli indizi, delle tracce di passaggio, e adesso che ho scoperto il suo diario nel sottoscala del castello, tra gli scatoloni pieni di libri, giornali e cartacce, riesco a malapena a leggerlo. Non sapevo neanche che ne tenesse uno.
Era pieno di polvere; chissà da quanto tempo era là. L'ho raccolto dal pavimento sporco e freddo e l'ho nascosto qua. Non voglio che qualcuno me lo prenda.
È un libro assemblato con tanta colla e ritagli di carta sgraffignati qua e là. Ci sono esoscheletri di piccoli insetti tra una pagina e l'altra. Ogni tanto la sua grafia si sovrappone ai caratteri di una vecchia, colorata rivista.
Ha scritto molto. Più vado avanti con la lettura dei suoi pensieri, più diventa difficile starle dietro. So già come andrà a finire, in ogni caso.
Sono arrivato a leggere di un pomeriggio d'autunno di tre anni fa. Era domenica e, dopo un'intera settimana di pioggia, quel giorno era tornato il bel tempo.
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Gap
Science FictionNaria e Toma, i membri più giovani della famiglia, seppur affezionati, non sembrano cogliere i desideri di Gap, il loro fratello adottivo, né intuire i confini invisibili della sua solitudine. Gli umani come lui sono alieni addomesticati, creature c...