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Scatto in piedi.

Una bionda in televisione scansa una pallonata micidiale con una giravolta. Il telecronista è entusiasta, il pubblico esulta.

Mi sudano le mani e non respiro. Perché mi sono alzato dal divano? Vorrei che Zoe fosse qui e che mi desse uno schiaffo fortissimo. Mi odiava con tutta sé stessa quando facevo così. Forza, distruggimi!

No, non l'avrebbe mai fatto. Non lei. Si sarebbe limitata a prendermi tra le braccia, a baciarmi sulla fronte e a sussurrarmi nell'orecchio: «Andrà tutto bene finchè stiamo insieme».

Ma c'era un lato di te che non conoscevo affatto. Era solo una questione di tempo. Prima o poi te ne saresti andata, non è vero, Zoe? Io non ne avrei avuto il coraggio. Tu lo hai sempre saputo. Sono solo, e non c'è nulla che mi faccia più male.

Ora è il turno della bionda, ora spetta a lei scagliare la palla sulla squadra nemica. Raccoglie la palla dal campo. Le sue dita affusolate si chiudono attorno alla superficie della sfera. Si prepara al lancio, è immobile, concentrata. Le ginocchia si piegano e il braccio destro arretra contro il petto, potente come una molla pronta a scattare. La circondano quattro compagne di squadra che attendono pazienti.

Ed ecco che la palla spicca il volo. Colpisce una delle giocatrici avversarie in faccia. La ragazza vacilla, portandosi una mano al viso. La telecamera inquadra un rivolo rosso che le scende dal naso. È stata eliminata.

Me lo avevi promesso, Zoe, che sarebbe andato tutto bene. Ma dovevamo restare insieme.

Mi giro verso l'ingresso, dove Toma ha abbandonato lo zaino. In sala, le luci sono ancora spente. Inspiro per sentire l'aria fresca, di casa, nei polmoni. C'è puzza di muffa. Con l'umidità della sera, l'odore diventa più forte, pungente.

Corro in biblioteca. Supero l'arco di pietra, che è talmente alto da arrivare quasi al soffitto. I libri consunti riposano nelle nicchie scavate nella roccia. Il tramonto, una chiazza arancione, ha allagato il pavimento. Accenderei la luce, ma qui manca la corrente (non c'è mai stata).

Mi avvicino alla grande vetrata verde di alghe e mi appoggio al davanzale. Oltre i tasselli sporchi intrappolati nell'intelaiatura metallica, le ombre si allungano lentamente sul terreno, mentre il sole cala vermiglio dietro il castello della signorina Zuzzarill Grull. Gli alberi del giardino si stagliano come sagome scure contro il cielo che si tinge di indaco, arancione e rosso, mano a mano che la luce si fa fioca. L'orizzonte sanguina.

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Mi domandai dove fosse stato per tutto quel tempo. Non c'era stato un giorno in cui non avessi provato a dare un senso alla sua assenza. Mi chiedevo se anche lui avesse mai provato qualcosa di simile: «Se a me manca lui, a lui manco io?»

Eravamo noi due, in una visione, in un sogno. Non c'era spazio per nessun altro.

«Meglio tardi che mai», pensai.

Spintonai i ragazzini che stavano fermi davanti a me. Non m'importava niente di loro. Uno mi assestò un ceffone, neanche mi voltai. Un altro disse che ero un idiota. Un brusio si levò dietro di me.

Tesi le braccia verso la luce feroce e, a occhi chiusi, saltai dal furgone. Ero sicuro che sarei finito tra le braccia di mio padre, una volta giù.

Qualcuno mi prese e, per farlo, lasciò che la torcia si sfracellasse a terra. Degli artigli affondarono nella mia maglietta e mi sentii sollevare, come un topolino con un'aquila.

Riaprii gli occhi. Non era papà. Gridai. Mi dimenai, ero un turbine di calci.

La creatura che mi aveva preso non mi lasciò cadere; anzi, mi avvicinò a sé e mi abbracciò. Mi fermai. Era un gigante – uno come tanti.

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⏰ Ultimo aggiornamento: a day ago ⏰

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