La spia luminosa sul pomello della porta che dà sul giardino è gialla. Potrebbero darmi il permesso di uscire tra poco. Uno dei due premerà il pulsante sul telecomando.
A quest'ora, Naria starà pensando alla nostra colazione e Toma si starà preparando a rilento per andare via da casa con il suo zaino, però sono ancora mezzo addormentato e, anche se la spia dovesse accendersi di verde, non avrei la più minima intenzione di andare a verificare. Dopotutto, questa sarà una giornata tale e quale alle altre; non c'è motivo di mettersi a correre. Me la prendo comoda. E poi domani faranno festa entrambi.
I nostri genitori sono già a lavoro da almeno un'ora. Ieri sera non li ho visti neppure tornare a casa. Sono andato a letto prima del solito, prima che arrivassero. Ero stanco, anche se ieri non ho fatto niente di che, a parte aiutare Naria con i compiti e ascoltare i problemi adolescenziali di Toma (si moltiplicano di giorno in giorno).
Caspita, la signora Tac aveva ragione su tutto. Perché non sono diventato bravo come lei? Ha provato a insegnarmi tutto quello che sapeva.
Mi limito molto a stare a guardare, io. Non amo le domande: ho paura che mi si rivoltino contro. Sto zitto quando posso, finché posso. Ho sempre paura e cerco di non attirare l'attenzione. Di solito, quando sto male, non lo dico.
Lei, invece, era sempre tranquilla. Aveva il viso roseo, i capelli bianchi e un paio di occhiali molto spessi e rotondi appoggiati sul naso. Veniva a casa nostra, cucinava per noi, ci dava la merenda e ci aiutava con i compiti. Lo faceva tutti i giorni e, per questo, le volevo molto bene.
Mi ascoltava con attenzione quando le raccontavo cosa mi era successo alla scuola per umani. Secondo lei, era un posto... "disfunzionale" o qualcosa del genere. In effetti, in classe c'era sempre una gran confusione. Per esempio, c'era un ragazzo che pisciava dentro le bottiglie e poi le metteva sopra alle porte socchiuse, così quando le aprivi ti cadeva tutto in testa.
Non sono abbastanza bravo. Perché non sono come lei?
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Le grida degli estranei fuori la notte mi hanno tenuto sveglio e, dalla distanza creata dai pannelli di vetro, ho intravisto delle flebili luci muoversi in fila.
Fuoco! Una fiaccolata ha percorso la strada al di là del prato facendo avanti e indietro almeno fino alle quattro del mattino, poi si è spenta dietro a qualche edificio, quando ormai anche le voci stavano incominciando a zittirsi.
Mi sono girato e rigirato nel letto per tutto il tempo. Ombre spaventose danzavano attorno alla mia stanza, con mani alzate che gravitavano sopra di me, e mostri famelici strisciavano ai piedi del letto, sul pavimento.
È stata la mia immaginazione, non è vero? Erano solo le ombre degli alberi fuori dalla finestra. Temevo che questa notte non avesse una fine.
Cacciaguida e Spartaco avranno visto tutto come sempre, anzi, probabilmente, tra un bacio e un altro, saranno sgattaiolati via dal loro cortile e saranno scomparsi nella confusione, stando attenti a non farsi scoprire dai loro padroni. Sono i peggiori guardiani notturni della storia.
Sento uno strano rumore provenire dal soffitto. Alzo gli occhi e vedo un'enorme mano grigia con quattro dita che sta picchiettando contro il vetro del lucernario.
Cerco di dire qualcosa, ma dalla mia bocca esce soltanto un sussulto. Il cuore mi batte fortissimo. Mi nascondo fulmineo sotto le coperte, anche se non servirà a nulla. Strizzo gli occhi e mi copro come posso con le mani. Non ho nemmeno le mutande!
C'è uno scatto, poi un cigolio. Tutto tace per un attimo. Sento la coperta che si solleva e scivola via.
«Gap, che fai? Ti nascondi?»
Quando riapro gli occhi, vedo il gigantesco faccione di Toma che si sporge dalla struttura aperta del tetto. Resto interdetto.
«Va tutto bene. Sono io. Ti ho spaventato?» Mio fratello sorride, con i suoi denti appuntiti in bella vista, poi diventa serio, si gratta la testa allungata e mi guarda preoccupato.
Annuisco.
«Stai bene?»
Continuo frastornato a scuotere la testa su e giù, poi finalmente riesco ad articolare qualcosa: «Un secondo».
Poggio i piedi scalzi sulle mattonelle fredde e rabbrividisco. Cerco di scuotermi di dosso il torpore del sonno. Mi fa male la testa. Mi massaggio la fronte e mi stropiccio gli occhi. Ho le cispe e le palpebre incollate. Devo andare in bagno.
Rotolo giù dal materasso e, quando mi alzo in piedi, sento le gambe vacillare. Metto un piede davanti all'altro e provo a muovermi. Passo davanti allo specchio, all'armadio e giro tutto a destra verso la porta del bagno.
Nel bagno non ci sono finestre, quindi è tutto buio. Entro e accendo la luce. Sono accecato per un attimo, ma poi riesco a vedere meglio. La ventola dell'impianto di aerazione inizia a girare. La piastrellatura bluetta si estende dal pavimento fino alle pareti.
Mi lavo la faccia e faccio le mie cose. Osservo la boccetta di profumo abbandonata. Penso: «Buongiorno, Zoe».
Il mio accappatoio nero è attaccato a un gancio vicino alla doccia. Non ci penso troppo e me lo metto addosso. Mi sento un po' meglio.
Quando esco dal bagno, Toma mi fa cenno di avvicinarmi. Nell'altra mano sventola il suo telecomando personale.
«Naria ti sta aspettando in cucina. Ha una cosa... Lascia perdere. Lo vedrai, Gap.» Detto questo, richiude rapido la struttura del solaio e si ritira.
Non ho modo di fargli delle domande.
La luce sulla maniglia della porta da gialla diventa verde. Toma ha schiacciato il bottone.
Volevo far aspettare un po' Naria stamattina, ma, se ha qualcosa di interessante da farmi vedere, potrei sbrigarmi.
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Spalanco lentamente le ante scricchiolanti dell'armadio. Facendo un sospiro, mi allungo per afferrare una maglia a maniche corte e un paio di pantaloni lunghi. Trovo anche la mia giacca impermeabile, ma oggi non mi va di prenderla: fuori c'è il sole ed è pur sempre primavera. Rovisto in un cassetto – mutande, calzini.
Butto l'accappatoio sul letto. Mi vesto veloce ma con cura. Sto attento a mettere tutto nel verso giusto. Non mi piace stare con la maglia al contrario o con il cartellino dalla parte del petto.
Giusto, ieri ho lasciato fuori le scarpe perché erano sporche di fango. Allungo la mano verso il fondo dell'armadio, in cerca di quelle di riserva. Dove sono?
Sfioro con il braccio qualche panno. Quanto è profondo questo guardaroba? Tocco il pannello posteriore del mobile, mi muovo a destra e a sinistra, su e giù. Adesso con la mano sento una stoffa ruvida. Ci sono! Pesco un sacchetto. Lo apro. Ecco qua le scarpe pulite, nerissime.
Non cammino scalzo fuori dalla mia scatola o, almeno, non lo faccio più. Diversi anni fa, quando ancora mi divertivo a sentire il contatto tra i miei piedi e l'erba del giardino, pestai un pezzo di vetro.
Fu strano, perché tagliandomi non sentii niente. Realizzai di essermi fatto molto male solo quando arrivai all'ospedale. Mi dettero i punti. Da allora ho il terrore di ritrovarmi di nuovo in quel posto.
Odio l'odore del disinfettante. Mi lascia senza fiato. E poi negli ambulatori si sente sempre quel puzzo chimico floreale che ti deve entrare a forza nel naso. Non lo so spiegare, dico solo che mi dà ai nervi.
Mentre chiudo l'armadio, ancora con le scarpe e il sacchetto in mano, noto che il mio respiro è diventato più pesante del solito. Trattengo il fiato per qualche secondo e poi lascio andare l'aria tutta in una volta. Ripeto questo gesto per qualche volta finché non mi sento più tranquillo.
La stanza sembra aver perso luce. Alzo gli occhi e guardo il cielo dal lucernario. Una nuvola solitaria sta coprendo il sole.
Mi siedo sul letto, mi allaccio le stringhe e mi rimetto in piedi. Abbandono il sacchetto sul pavimento. Metterò in ordine dopo: adesso devo andare a fare colazione. Naria starà scalpitando. Chissà cos'ha in serbo per me. Spero che sia qualcosa di bello. Non ho molta fame però.
E poi cos'è successo stanotte? Mi piacerebbe scoprirlo.
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Gap
Science FictionNaria e Toma, i membri più giovani della famiglia, seppur affezionati, non sembrano cogliere i desideri di Gap, il loro fratello adottivo, né intuire i confini invisibili della sua solitudine. Gli umani come lui sono alieni addomesticati, creature c...