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Sono seduto in cucina, sul mio sgabello personale, e dondolo i piedi nel vuoto. Il pavimento mi sembra lontano. Sarebbe un bel problema se cadessi, quindi cerco di mantenere l'equilibrio.

Naria è qui accanto a me con le gambe accovacciate sul pavimento (perché soltanto in questo modo stiamo alla stessa altezza) e, mentre mando giù a piccoli sorsi il mio infuso alla margherita, mi accarezza i capelli sorridente. Le sue ginocchia e i suoi piedi, perennemente scalzi a differenza dei miei, sono fatti come quelli di uno struzzo, ma sono più muscolosi. Mi chiedo se stia comoda seduta in quel modo.

Ogni tanto mi fermo e giro la tazza per guardare i caratteri che compongono il mio nome sulla ceramica.

Ogni tanto mi fermo e giro la tazza per guardare i caratteri che compongono il mio nome sulla ceramica

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«Ti ricordi che c'è scritto lì?»

«Certo», rispondo.

«E allora?»

«"Gap". Sono io.»

«Bravo.»

Naria mi accarezza le orecchie.

«Sei stata tu a insegnarmi, per questo sono bravo. La tua lingua non è facile. Non riesco ad articolare i suoni. Non ci capisco niente. Perché mi fai la stessa domanda tutte le mattine?»

«Perché ho paura che ti dimentichi. Non preoccuparti, Gap. Nessuno qui si aspetta che impari il gigantese: non ti serve!»

Mia sorella ride e mi abbraccia affettuosa. Mi sento al sicuro in questa presa. Appoggio la testa sulle sue spalle ricurve e lisce. La schiena di Naria è come un sentiero nello spazio, ma senza stelle. C'è una linea sottilissima, una rientranza, che divide il corpo di tutti i giganti a metà, ma lei è talmente tanto scura di carnagione che la sua si vede appena. Il suo torace è fatto di curiose protuberanze rotondeggianti; è da lì che vengono i suoi pensieri, dal suo cervello.  Metto le mani avanti, come per allontanarla, ma all'improvviso mi sento in colpa di averlo fatto.

«Scusa», mormoro dispiaciuto. «Appena sveglio, non ho voglia di nulla.»

«Non fa niente, Gap. Sei troppo carino e ti perdonerò sempre», dice Naria. Mi sfiora le guance.

Quando ci lasciamo, afferro i miei biscotti dietetici sul tavolo. Apro la confezione a forma di tubo, ne prendo uno e me lo mangio.

«Non sono un granché», mi lamento.

«Non so, non li ho mai assaggiati.»

Ne mordo un altro e, con la bocca piena, asserisco: «Dovresti farlo, invece».

«Sai com'è. Il cibo per umani è... fatto apposta per voi. A noi non piace.»

«Come fai a dire una cosa del genere se non ne hai mai...»

Naria mi interrompe: «Non hanno neppure un odore. Non è un buon segno».

«In effetti, sono insipidi.»

Mi zittisco e butto giù il biscotto. Devo aver assunto un'espressione davvero insolita perché adesso sento che Naria sta cercando il mio sguardo. Di solito, evito di guardarla negli occhi: dentro di me, li trovo brutti.

No, lo confesso: la verità è che gli occhi di mia sorella sono proprio spaventosi. Obliqui, grandi, neri. Lei sbatte le palpebre solo di rado, così per tutto il tempo sono come delle sfere di vetro che riflettono il mondo esterno.

«Gap, c'è qualcosa che non va a parte i biscotti?»

Non so cosa rispondere. Taglio corto e cambio discorso: «Ci sono dei giochi che non avevo mai visto in giardino. Perché non sono in camera tua?»

«C'è un fantasma, là in giardino. Non se n'è ancora andato. È là, ne sono certa. Speravo che giocare con i pupazzi lo avrebbe fatto sentire meno solo.»

Faccio un sorso dalla tazza, ma un brivido mi attraversa la schiena: sapere che qualcosa potrebbe aggirarsi indisturbato nel buio, appena oltre la porta di casa, mi fa una paura tremenda.

Ripenso a tutte quelle storie di paura che Guppy raccontava al negozio e m'immagino l'anima in pena di Zoe che si aggira tra le piante al chiaro di luna.

«Un fantasma? Non dire sciocchezze», cerco di razionalizzare la situazione. «I fantasmi non esistono e dovresti saperlo meglio di me, visto che sei più intelligente.»

«Sì, ma ti giuro che questo esiste! Vedrai se è vero o no quando riuscirò a scattargli una foto. Stanotte l'ho aspettato per un po', ma poi sono andata a dormire perché ero stanca. A un certo punto, mi ha svegliato un trambusto che veniva da fuori. Ho sbirciato dalla finestra; ho visto delle luci, ma non era il mio fantasma e, alla fine, sono tornata a letto.»

«Ho visto anch'io quelle luci. Mi hanno tenuto sveglio», brontolo.

«Già. Chissà che cosa volevano fare.»

Ci penso un attimo, ma non mi viene in mente nessuna spiegazione ragionevole. Indugio, ma poi me ne esco con un'altra domanda: «E chi ha detto che volevano fare qualcosa?»

«L'ho solo ipotizzato, a dire il vero.»

«Magari era soltanto una festa», azzardo.

«Allora, in quel caso, volevano divertirsi e fare baldoria! Vedi che ho ragione in qualsiasi modo tu la metta?»

Non fa una piega.

«Comunque, quei giochi li ha portati papà ieri sera tardi, quando è tornato dal lavoro. Tu eri già a letto. Erano di Veleria, ma ha deciso di regalarli a me perché dice che è troppo grande adesso per giocarci. In realtà, anch'io sono piuttosto cresciuta per quei giochi, ma li ho voluti lo stesso. Per il fantasma... ovvio. Chissà se li troverà divertenti...»

«Certo. Come fai a sapere che c'è un fantasma in giardino? L'hai visto?» chiedo intimorito.

«Non l'ho visto, ma ha spostato delle cose, ha preso delle cose... dalla spazzatura, specialmente.»

Mi sfugge un sorrisetto, mentre guardo il fumo della bevanda calda che esce dalla tazza. Commento: «Più che un fantasma mi sembra un ladruncolo o un animale affamato. E poi si può sapere come mai non me l'hai detto prima? Spero che mamma e papà lo sappiano».

Naria sembra un po' imbarazzata e abbassa lo sguardo: «Non te l'ho voluto dire perché sei così... assente». Fa schioccare le labbra: «Non riesco neppure a spiegarmi il motivo». Qualcosa è cambiato nel tono della sua voce cristallina.

Alzo lo sguardo dalla tazza. «Mi manca Zoe», sussurro, quasi come se fosse un segreto.

Tutt'a un tratto, mi rendo conto che mia sorella sapeva già e che non c'era bisogno di metterle a mente il mio stato. Era ironica o forse sarcastica.

«Ancora? Ma è passato tanto tempo, povero!» Naria si avvicina a me e mi stringe il mento tra due dita. Sento le mie labbra che si increspano. «Manca a tutti noi. Di questo passo, tra dieci anni ci penserai ancora, ma sarebbe meglio per te che non ci pensassi più. Sei giovane, Gap.»

«Ma io non ho ancora...» mugolo con la bocca serrata.

«Toma è passato dalla tua scatola? Ti ha detto che ho qualcosa per te?» domanda mia sorella, mollando la presa.

«Sì, ma di che si tratta?»

I suoi occhi si illuminano.

GapDove le storie prendono vita. Scoprilo ora