Un uccellino cinguetta da qualche parte su un albero del giardino e, a parte la sua dolce canzone, non sento nient'altro. Il giardino è attorniato dagli alberi, che sono altissimi e che hanno i rami piangenti.
La piccola scalinata con due ringhiere ai lati, che decora l'ingresso, è una sorta di limbo che separa il mio abitacolo dall'esterno.
Richiudo la porta alle mie spalle e, per caso, mi prende la voglia di fare una cosa di quando ero bambino: mi aggrappo saldamente alle sbarre del corrimano e, sentendomi leggero come una piuma, mi sollevo. Immagino un torrente di lava al posto dei tre gradini che ho sotto i piedi e comincio a dondolarmi avanti e indietro. Poi, senza esitare, spicco un balzo e atterro sull'erba soffice.
Le scarpe sporche non ci sono più. Toma le avrà portate via. Non ci penso troppo, perché il mio sguardo corre subito oltre la recinzione di rete, alla ricerca di qualche traccia della fiaccolata, ma la strada del quartiere è tale e quale a come l'avevo lasciata ieri. Non c'è neanche un po' di cenere, come se qualcuno avesse già pulito la pista magnetica. Un'improvvisa ventata gelida sul collo mi fa desistere dal pormi domande.
Il vento agita il grande spaventatorte piantato nell'aiuola di fronte all'ingresso del castello. Alle sue spalle, c'è un ammasso di legna scura. Sì, ora che Toma ha ricoperto quella croce di bastoni con i vecchi vestiti di nostra sorella (convincerla a darceli è stata un'impresa) nessun piccione, nessuna torta atterrerà più sul cortile.
Oltre la catasta e gli alberi... un nervoso gracchiare riempie l'aria. Dalla casa abbandonata si leva uno stormo nero di cornacchie. La comprerà mai qualcuno?
Sento un borbottio venire dall'altra parte della strada: «Unt comeli! Qua engà me pepe». Giro la testa.
La nostra anziana dirimpettaia sta dando l'acqua alle peonie. Stringe tra le mani tremanti un annaffiatoio verde. Sollevo la mano in aria per salutarla, ma si gira dall'altra parte non appena mi vede. La signorina Zuzzarill Grull oggi è meno amichevole del solito.
Trotterello via dalla scatola. Allungo la mano e accarezzo la siepe rigogliosa dei Vonturs; la rete ci sparisce dentro. A volte mi avvicino e curioso nella loro proprietà. Mi piace disturbare Cacciaguida o Spartaco, anche tutti e due insieme se ci riesco.
Mi affretto verso la casa dei miei padroni. Calpesto la terra, calpesto i fiori.
La costruzione si erge imponente proprio nel bel mezzo del prato: una facciata di mattoni di calcare, costellati da centinaia di piccoli buchi, e piante rampicanti inarrestabili nella loro scalata; lastre, praticamente monoliti riarsi, per angoli. All'interno, stanze spaziose e soffitti alti.
Naria ha dimenticato dei giochi sull'erba; più tardi dovrò fare in modo che li riporti in camera sua. Credevo che non si sarebbe più messa a giocare in giardino; è strano trovare dei giocattoli qua. Non è più una bambina.
Li guardo meglio. Sono animali di pezza. Non li avevo mai visti prima. Da dove vengono? Sono nuovi. Forse sono arrivati a casa ieri sera, dopo che sono andato a letto. Devo essermi perso qualcosa.
Il pupazzo che mi sembra più carino ha la forma di una grande palla di pelliccia rosa con un paio d'ali soffici. Ha due piccole orecchie appuntite su quella che sembrerebbe essere la testa, ma poi non ha né occhi né bocca.
Un altro è azzurro, ma ha il naso lucido e rosso. Gli occhi sono grandi e gialli, forse un po' storti. Ha il corpo affusolato, quattro zampe paffute e una coda lunga e pelosa come uno spolverino. Sembra un animale notturno, tipo una cozza.
Quello che mi piace di meno (perché mi metterebbe paura se fosse vero) ha il capo allungato, un corno in mezzo alla fronte e due occhi che stanno uno su un lato della testa e uno sull'altro. Ha le narici molto grandi. Le zampe terminano con degli zoccoli di legno. Nel complesso, direi che assomiglia a un grillo senza ali e con qualche zampa in meno.
Mi avvicino e prendo in braccio, per vederlo meglio, il quarto peluche. È un lucertolone con la bocca piena di denti seghettati. Ha le zampe corte e tozze, la lingua biforcuta, e tutto il suo corpo verde è attraversato da una cresta arancione. È morbido al tatto, ma la sua espressione è insolita, diversa da qualsiasi altro giocattolo che Naria abbia mai avuto: i suoi occhi scuri, piccoli come punte di spillo, sembrano guardarmi pieni di rabbia. Mi fa simpatia, nonostante l'aspetto minaccioso. Lo rimetto sull'erba.
Chissà se questi curiosi animali esistono davvero o se magari sono opere di fantasia. Se vivessero nel circondario, sarebbe un bel problema e Toma dovrebbe inventarsi qualcosa per tenerli lontani da me.
Sento il mio cuore riempirsi di nostalgia. Penso a tutti i giocattoli che abbiamo rotto assieme io e i miei fratelli. I sopravvissuti stanno prendendo polvere in camera di Naria. Quei tempi non torneranno mai più. Sono passati quindici anni da allora.
Io e Naria abbiamo la stessa età, ma io sono un uomo e lei è ancora una ragazzina. Le nostre specie crescono e invecchiano a ritmi diversi. Fare un paragone non ha senso. Adesso mia sorella ha venticinque anni come me. Toma, invece, ha trent'anni. Vanno a scuola e si comportano entrambi come se fossero due adolescenti, anche se per certi aspetti, continuano ad essere un po' infantili.
Ricordo come se fosse ieri quando, con un sorriso dipinto sul viso, i miei fratelli mi travestivano da lupacchiotto, sotto lo sguardo vigile ma divertito della signora Tac. Con un pennarello, Naria mi disegnava un punto nero sul naso e mi faceva i baffi sulle guance. Una volta trasformato, mi alzavo con un balzo e mi mettevo a ringhiare, proprio come un vero lupo.
Rincorrevo i miei fratelli per il giardino, ma non li prendevo mai perché avevano le gambe più lunghe e forti delle mie. Anzi, erano loro ad acchiappare me. Non appena ero un po' stanco e mi mettevo a sedere per terra, Toma mi agguantava per la vita e mi portava di peso in un recinto immaginario. Mi divertivo tantissimo, anche perché dopo che mi avevano intrappolato, mi lanciavano i biscotti e io li prendevo al volo.
I nostri giochi erano sempre molto agitati. Spesso io e Naria ci arrabbiavamo con Toma per la sua tendenza ad essere... sé stesso, insomma tutto ciò che è o è stato: strambo, dispettoso, imprevedibile, spaventevole e anche un po' scalmanato.
Una volta, quando eravamo da soli nel castello, ci rincorse attorno al tavolo della cucina con un coltello in mano, facendo finta di essere impazzito. Per fortuna, il coltello era finto. L'aveva tinto con una vernice che lo faceva sembrare di metallo.
In realtà, se non diventava eccessivo, i suoi racconti del terrore ci tenevano uniti davanti a una tazza di tè e qualche frittella. Era un narratore capace. Da quando Zoe è morta, non racconta più niente.
Zoe è sepolta qui, in giardino, ai piedi del vecchio abete che adesso è pieno di fiori celesti. È stato lì che l'ho trovata, la mattina del 25 dicembre di tre anni fa, un paio di mesi dopo la tempesta. Il cielo era tinto di un rosa intenso.
Ci abbracciavamo nel buio io e Zoe. La sentivo muoversi nel letto, di fianco a me. Si strofinava alle lenzuola e alla mia pelle. Dormiva a bocca aperta e sbavava sul cuscino. Non potevo immaginarmi che il nostro amore stava già finendo.
La rabbia non è mai passata per davvero. Brucia instancabile.
Torno al presente quando sento Naria che mi chiama a gran voce dalla finestra della cucina.
Una lucertola rossa scende giù dalle mura di pietra del maniero e si tuffa nell'erba verde.
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Gap
Science FictionNaria e Toma, i membri più giovani della famiglia, seppur affezionati, non sembrano cogliere i desideri di Gap, il loro fratello adottivo, né intuire i confini invisibili della sua solitudine. Gli umani come lui sono alieni addomesticati, creature c...