12. Apollo

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– Ma siamo impazziti?!

Stavo urlando. Ne ero perfettamente consapevole. Sapevo anche che la mia voce, ripercuotendosi a terra, avrebbe potuto causare un qualche terremoto o tremende carestie dei raccolti. Era già successo per molto meno.

E in un qualsiasi altro momento sarei anche stato abbastanza lucido da pensare a queste cosiddette conseguenze: non avevo certo intenzione di provocare disagi tra i mortali (che mi erano diventati molto più cari dopo una certa, stranissima esperienza tra loro)... eppure l'isteria di quell'attimo era irreparabile.

Stavo urlando. E niente avrebbe potuto fermarmi.

Artemide faceva avanti e indietro davanti a me, le mani cinte dietro la schiena e i capelli scuri che le svolazzavano sciolti alle spalle. Non mi stava neanche guardando, concentrata com'era su quel suo irritante andirivieni, eppure sospettavo che, sebbene non lo sfogasse, stesse provando esattamente ciò che angustiava me.

Ossia che i miei poteri non funzionavano più.

Oddei, cioè, era già capitato in passato che le mie capacità, d'improvviso, venissero meno, e ciò era accaduto anche in modi molto, molto peggiori (del tipo ritrovandomi dolorante e acciaccato in mezzo a cassonetti luridi), ma adesso c'era qualcosa di veramente sbagliato in quel fenomeno.

Perché, per qualche ragione, non solo i miei poteri divini stavano sparendo, ma anche quelli di mia sorella stavano facendo la stessa fine.

La parte peggiore? Stavano sparendo soltanto da noi stessi.

– Potresti smetterla di fare così?! – sbottai, seguendo nervosamente con lo sguardo il movimento ritmico di Artemide – È antipatico.

La dea si fermò a metà di un passo e mi scoccò un'occhiataccia raggelante, che mi fece irrigidire sul posto. Era inquietante vederla sotto una forma adulta, una volta tanto. Per quanto ne sapevo, lo faceva soltanto quando era veramente ansiosa e aveva bisogno della seria autorità delle persone mature. Piccola perla di saggezza per gli dei in ascolto: quando si è emotivamente instabili, è meglio adottare una mente composta di sentimenti repressi, come quella di un adulto: un bambino, in simili situazioni, sarebbe già impazzito.

– Tutto ciò non ha senso – borbottò, le pupille che schizzavano a terra. Iniziò a tormentarsi le mani, strattonando al contempo un lembo della veste dorata – Nessun senso.

Davvero?! – esclamai, il tono nevrotico. Mi indicai con insistenza il diadema d'argento che quella mattina mi era comparso magicamente in fronte e che non ero riuscito a staccare neanche con l'esplosione atomica di un reattore nucleare (ero disperato, okay?) – Questo coso è tuo! Perché ce l'ho in testa io?!

Artemide levò gli occhi al cielo.

– Sono ore che mi fai la stessa domanda – sputò – E ti ho già detto che non lo so.

Emisi un gemito disperato, afferrandomi quella coroncina infernale e ricominciando a tirare fino quasi a spaccarmi in due il cranio. Nel tentativo, per sbaglio, mi trasformai in Lester Papadopoulos e restai lì, nel bel mezzo della sala centrale del palazzo del Sole, un ragazzino in tuta, imbronciato e con un diadema da Cacciatrice appicciato in testa.

– Sei inutile – borbottai a mia sorella, incrociando le braccia sul petto.

La dea mi guardò male, come faceva sempre quando assumevo quella forma. Per qualche motivo quel mio piccolo mortale la irritava.

– Guarda che non sei l'unico con questi problemi! – proruppe, sdegnata. Additò dietro di sé, dove i cavalli del Carro del Sole si stavano sporgendo dalla stalla per guardarla meglio. Quella mattina si era svegliata lì, accanto a me, e gli animali che da secoli mi erano fedeli più di ogni altro immortale erano corsi da lei entusiasti, sbuffando e scalciando nervosi quando mi ero avvicinato io.

Prigione di sogni [Percy Jackson] [Temporaneamente Sospesa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora