CAPITOLO 2

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Xilya

Non è possibile.
Sto vivendo un incubo.
«Xilya ti rendi conto della gravità della situazione?» la mia agente continua a parlarmi, nonostante io non abbia spiccicato parola da quando sono nel suo ufficio.

«Ringrazia che quel bambino che hai investito mentre eri fatta non sia morto o a questo punto ti trovavi in carcere».
Continuo semplicemente a guardare i grattacieli di New York mentre nella mia mente ripeto che questo è solo un incubo e che presto mi sveglierò nel mio appartamento lussuoso a Manhattan.

«Mi stai ascoltando?» Kate sbatte una mano sul tavolo di vetro riscuotendomi bruscamente dai miei pensieri.
«Si Kate ho sentito tutto».
Più o meno.
«Sei tu insieme alle persone che pago che dovete occuparvene».

«Xilya, noi ci proviamo ma tu stai superando ogni limite. Tra un pò ripulire la tua immagine sarà impossibile».
La guardo negli occhi e faccio un'alzata di spalle.
«Se vi intascate lo stipendio è perché potete farlo».

Kate esasperata scuote la testa.
«Xilya la cosa più grave è che non ti rendi neanche conto che sei tu che devi crescere. Tu sei responsabile di te stessa».

"Sei rimasta una bambina capricciosa".
"Sei immatura, l'unica cosa di cui ti importa sei te stessa e le tue sfilate".
"Non sei la figlia che volevamo crescere".
Stringo i pugni e mi sforzo di non pensare più a loro. I miei genitori, e alle parole che mi rivolgevano la maggior parte delle volte quando ancora ci tenevamo in contatto.

«Io non so più se riesco a lavorare con te», Kate sussurra codeste parole ma a me arrivano forti e chiare.
«CHE COSA?»
Mi alzo dalla sedia con così tanto impeto che la ribalto quasi.
Mi avvicino a lei che si trova in piedi davanti alle grandi vetrate panoramiche e mi dà le spalle.

«Non mi puoi abbandonare, non ora».
La sua postura rigida viene a mancare e incurva le spalle abbassando la testa.
«Non vorrei, ti ho vista crescere e sai che ti voglio bene. Esattamente come ne volevo a Tatian-»

«NON NOMINARLA», le urlo contro facendola girare spaventata.
Non voglio più sentire il suo nome. Non potrei farcela.
Finché non ci penso sto relativamente bene, mi tengo in piedi. Ma non posso farcela se anche solo dicono il suo nome.
«Xilya anche questa cosa che non riesci neanche a sentire il suo nome non è sano. Devi tornare in terapia».

Scuoto la testa e mi si tappano le orecchie, come ogni volta in cui ha provato a tornare sull'argomento terapia.
Non ne ho bisogno.
Mi basta distrarmi.
Mi basta bere abbastanza alcolici da stordirmi.

E qualche altra volta, quando il suo ricordo fa troppo male devo prendere qualcosa di più forte.
Ma sto bene.

«Vedi, continui a non voler aiuto, tu non vuoi guarire, tu vuoi solo continuare la vita che ti sta uccidendo e ti aspetti che gli altri aggiustino ciò che rompi dove passi. Ma questa volta per la tua sicurezza e quella degli altri non posso più lasciartelo fare. Non dopo quello che è successo».
«Che intendi dire?»

«Per un pò ti allontanerai dai riflettori, e andrai a disintossicarti».
Rimango a fissarla per qualche secondo cercando un qualcosa che mi faccia capire che è ironica. Lei rimane impassibile e a me viene solo da ridere istericamente. E lo faccio.
«Mi tratti come se fossi una tossica».
«Lo sei. Ti droghi e sono più le volte che sei ubriaca che sobria. Lo faccio per te».
«Certo come no, lo fai solo per pulirti la coscienza».

Kate mi guarda come se fossi pazza.
E forse lo sono davvero.
«Ma cosa dici?»
Indosso la mia maschera di impassibilità e rimango zitta.
«Mi sembra di aver fatto sempre le cose solo per il tuo meglio, per il tuo benessere. Ma ormai con quello che hai combinato nessuno ti prenderà più per nessuna sfilata e per nessuno shooting. Prima di distruggere definitivamente la tua carriera, ti consiglio di sparire per un pò e ritornare quando starai meglio».
Non so che dire.

Mi risiedo dove stavo prima, appoggio i gomiti sul tavolo e mi prendo la testa tra le mani.
Un dolore allucinante mi preme sulle tempie e sono stanca. Sia fisicamente che mentalmente.

Negli ultimi mesi sono entrata in una spirale di autodistruzione. E la cosa brutta è che non riesco a smettere di farmi del male. Non voglio. Perché io merito tutto il dolore che mi assale.
E' la mia punizione per essere ancora viva.
Mentre lei...
«Ho trovato un programma di riabilitazione in un piccolo paesino in Canada. Lontano dalla città, totalmente immerso nella natura. Secondo me ti farà bene».

«Posso scegliere di non andarci?» dico ironicamente.
«Sei maggiorenne, non posso costringerti. Ma se ti è rimasto anche solo un briciolo di amor proprio, spero che mi ascolterai, almeno questa volta».
Accolgo la sua frecciatina e annuisco. Non ho le forze per oppormi.

Dopo la "chiacchierata" con Kate torno nel mio appartamento per iniziare a fare le valigie.
Mentre sono qui, mi guardo intorno e mi rendo conto che, ho tante cose. Centinaia di vestiti, accessori, trucchi e tutto ciò che una ragazza appena ventenne potrebbe desiderare. E anche di più. Ma niente di tutte queste cose materiali può colmare il vuoto che sento dentro. La solitudine.

Non ho una famiglia unita, i miei genitori non li sento da quando ho finito il liceo con qualche difficoltà. Non ho amici, o almeno non veri amici. Le persone vogliono essere amici di Xilya Kelly, la super top model famosa, bella e ricca. Non vogliono avere niente a che fare con Xilya Kelly piena di problemi e sempre scontenta della sua vita. Con la Xilya che non riesce a rimanere lucida e sobria per più di un giorno.

L'unica persona che ci teneva veramente a me era mia sorella maggiore, ma anche lei mi ha lasciata.
Dopo aver preparato tutte le valigie, mi avvicino al comodino della mia camera da letto. Con la chiave che porto al collo come collana apro un cassetto che non oso toccare da più di un anno.
Appena lo apro tutte le emozioni che ho cercato di soffocare ritornano a galla. Qui dentro ci sono tutti i miei ricordi più personali con la mia famiglia. L'album delle foto di quando ero piccola, tutte le lettere che mi scriveva Tatiana, mia sorella, mentre frequentava il college. Ogni volta la prendevo in giro perché poteva perfettamente scrivermi un messaggio ma lei ridacchiava e mi diceva che la tecnologia avrebbe rovinato la bellezza e l'autenticità dei rapporti umani.

Prendo i disegni miei e di Tatiana quando andavamo all'asilo, una lacrima traditrice mi scivola sulla guancia quando vedo me, Tatiana, mamma e papà rappresentati sotto forma di omini stilizzati su un disegno che devo aver fatto quando avevo a malapena quattro anni. Ero e sono veramente pessima a disegnare.

Poi invece prendo un ritratto che ha fatto mia sorella quando era al quarto anno del liceo. Lei era bravissima nel disegnare. Soprattutto le persone che le stavano intorno. Passava le ore in giro per la città disegnando i volti degli sconosciuti che incontrava. Tornava a casa con un grosso sorriso, una valigetta piena di fogli e le mani sporche di tempera. Osservo il disegno che ho in mano, sono io.

Ero così felice quando mia sorella mi aveva proposto di fare da musa per lei. Tatiana disegnava solo le persone che le sembravano buone e pure. E io sono sempre stata l'esatto contrario. Magari non ero mai arrivata ai livelli di adesso ma, ne ho combinate di cazzate nella mia vita.

Ma per la prima volta, mi ero sentita come mi vedeva lei, la sua sorellina degna di tutto il suo affetto.
Sono rimasta ferma ore e ore ma alla fine è venuto fuori un capolavoro.
Rimetto nel cassetto il disegno e tiro fuori ciò che non ho avuto il coraggio di guardare fino ad ora.

L'album fotografico. Accarezzo la copertina ruvida, la scritta Kelly Family è sbiadita. Sto quasi per aprirlo ma, mi manca il coraggio. Non è ancora arrivato il momento. Lo appoggio sul letto e richiudo il cassetto a chiave.
Infilo l'album nella mia borsa e vado in bagno per farmi una doccia prima di partire per il Canada.

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