CAPITOLO 11

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Anonimo

Basta una scelta sbagliata.
Una singola decisione per mandare all'aria un'intera vita di sacrifici.
E ora dopo anni, ne sto pagando le conseguenze.
«Abbiamo un problema», mi dice una voce ferma dall'altro capo del telefono. Attacco e lancio il telefonino sul tavolino davanti a me.

Porto la sigaretta alle labbra e faccio un tiro sperando che la nicotina svolga il suo dovere nel tranquillizzarmi. Ma neanche questo mi aiuta ultimamente.
Negli ultimi due anni, niente è andato come avrebbe dovuto.
La mia vita non è quella per cui mi sono spaccato il culo.
Non è quella che mi meritavo dopo tutto ciò che ho fatto per costruirla.

«Signore le posso portare qualcosa da bere?» una hostess che avrà si e no venticinque anni mi si avvicina e mi rivolge un sorriso garbato che le muore sul viso quando vede la mia espressione incazzata.
«L'alcolico più forte che avete», impartisco con voce ferma.
Lei annuisce e si dilegua quasi correndo.

Mi sfrego il viso con le mani callose.
Tutta questa storia mi farà morire prima del tempo.
Fuori dall'oblò dell'aereo il paesaggio è comparabile a ciò che c'è nella mia mente: foschia.
Niente è più nitido.
Sono sempre stato un uomo metodico, legato alla sua routine in modo forse anche troppo rigido. Avevo pianificato tutta la mia vita fino al momento in cui mi sarei riposato per l'eternità.

Ma come dicono tutti: la vita è imprevedibile.
Solo agli stolti questa cosa può piacere.
Io non lo trovo per niente emozionante o eccitante, solo una grande rottura di scatole.
Preferisco la tranquillità di sapere tutto ciò che mi accadrà, senza aspettarmi sorprese, né negative che positive.

Un'hostess diversa viene verso di me con il carrello di metallo per gli alcolici.
Devo proprio averla terrorizzata l'altra.
Me ne frego.
Si ferma affianco il mio posto, prende un bicchierino scintillante di cristallo e ci versa dentro un liquido ambrato che già dall'odore intenso e pungente capisco che è proprio ciò che il mio corpo richiede in questo momento.
Qualcosa di bello forte per anestetizzare un pò la rabbia che infuria in me.

Afferro il bicchierino che mi porge l'hostess e nonostante contenga una dose abbondante di alcol con un elevata gradazione, butto tutto giù in una volta.
Il bruciore classico ci mette un pò ad arrivare ma quando lo fa è così piacevole che mi fa gemere.
Butto la testa all'indietro e con le dita faccio cenno alla donna di versarmene un altro.

Mi guardo intorno e realizzo dove le mie decisioni mi hanno portato.
Sono seduto su una poltroncina morbida e riscaldata di un jet privato che neanche con venti stipendi potrei permettermi.
Oltre a me e gli assistenti di volo non c'è nessuno.
Gli interni sono interamente bianchi: pareti bianche, poltrone bianche, porte bianche. È tutto molto asettico e impersonale. Ci sono 8 posti a sedere in tutto, posizionati in coppia uno davanti all'altro. Tra ogni poltrona c'è un tavolino di cristallo.

Una tenda -provate ad indovinare di che colore? Se avete detto bianca siete dei fottuti geni- mi divide dalla cabina di pilotaggio.
L'hostess se ne va ancheggiando sui tacchi vertiginosi lasciandomi solo con i miei pensieri e rimorsi.

Ripercorro mentalmente gli ultimi 5 anni della mia esistenza.
L'emozione predominante è stata la paura.
Paura dell'ignoto.
Di quale fine avrei fatto.
O meglio, quella che loro mi avrebbero fatto fare.

Forse se mi avessero ucciso sarebbe stato meglio.
Invece mi hanno trasformato in una marionetta.
Che schifo.

Sono schifato dalla mia debolezza, dalla facilità con cui mi sono fatto piegare per i loro comodi.

Molti potrebbero pensare che dovrei avere rimorsi sulla cosa che mi ha condotto a queste persone.

Ma ho fatto solo il mio lavoro.
Ciò per cui sono stato messo al mondo.
Ognuno nasce per uno scopo, e se non riesce ad adempiere ad esso può anche morire.

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