02 - OperazioneMe

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Non tutte le bestie, sono animali.
Anemaecor_e

Un uccellino in gabbia, una copia nera di Van Gogh, ecco cosa mi sentivo, ecco cosa sono stata per tutti questi anni. Uscire dal quel perimetro poteva essere un'opportunità.

Con una lentezza disarmante, come se avessi tutto il tempo a disosizione, scesi le scale. Il tacchettio dei miei passi veniva sfumato dal tappeto rosso, col quale era stato ricoperto accuratamente ogni gradino in marmo. Il corridoio, per quanto immenso, giorno dopo giorno mi sembrava che perdesse qualche metro. Delle volte mi mancava il respiro, ma ero costretta a restare di ferro perché nessuno poteva salvarmi da qualcosa che vedevo soltanto io.

Non erano una novità tutte le domande che tenevo per me, non era una novità neanche beccarmi a fissare il soffitto mentre mi chiedevo se davvero fosse questa la mia vita, se seriamente fossi nata per portare avanti una generazione di robot priva di sentimenti.

Ad ogni modo,
la mia camminata lenta non era un caso.
Nulla di quello che stavo facendo era un caso.

Nemmeno quando di punto in bianco mi fermai e raddrizzai la schiena, come se volessi dire: ''Ti ascolto''. No, non era un caso. Vivevo con le stesse persone da una vita; avevo imparato a riconoscerne i profumi, le movenze, persino il rumore dei passi. Per cui, non restai sorpresa quando sentii la voce debole di Cenk, il maggiordomo, pronunciare il mio nome con una tale fermezza da farmi drizzare i peli sulle braccia.

Non mi girai, ma percepì che aveva la coda fra le gambe. Non mi girai, ma sapevo che quel sorriso che provava a tenere vivo non era luminoso come al solito e sapevo che non era più poi così giovane: I suoi occhi chiari erano spenti; i capelli perfettamente tirati indietro con del gel erano più grigi di qualche giorno prima e di certo, non era più un bell'uomo invidiabile. L'unico che aveva a cuore la mia vita. L'unico che si fermava a chiedermi come stavo col vero intento di saperlo. L'unico col quale avevo voglia di parlare.

È stato lui a regalarmi il primo romanzo, di nascosto. È stato sempre lui a donarmi quei piccoli attimi di spensieratezza, di nascosto.
È stato lui che, anche se per poco, mi ha fatta stare bene. Normale. Ed è stato sempre lui a spiegarmi i segreti dell'universo quando sembravo non trovare più un senso a ciò che avevo attorno. Dovrei la mia vita a quest'uomo vestito in bianco e nero, e sapevo bene anche questo.

«Posso aiutarla adesso?» chiese, facendo un passo. «Posso prendermi la colpa del suo ritardo! Sa che potrei farlo. Potrei dire di aver-»

«No.» non avrei sopportato una parola di più. Non lo vedevo, ma come suo solito fare, lo immaginavo immobile, con gli occhi apertissimi, incredulo alla reazione della ''donna di ghiaccio''. In casa ero conosciuta con questo nomignolo e non era difficile sentirsi chiamare anche ''Cuore di pietra'' o ''Robot Harley'' dalle poche persone che lavorano lì da anni. Donne che con me non hanno mai spiccicato nemmeno una parola perché mi era sempre bastato uno sguardo per tenerle a debita distanza. Per me era sempre stato semplice ricavarmi un buco dal Mondo. Nessuno ci aveva mai pensato, ma forse... dico forse, quel silenzio in cui spesso mi rifugiavo, stava soltanto aspettando che qualcuno lo distruggesse. «Sono in perfetto orario, Cenk» mentii. Quella sera sarebbe stata l'ultima che avrei passato lì, e mostrare un po' di gratitudine a quest'uomo che non ha mai preteso niente, se non il mio bene, mi sembrava il minimo.

Apparivo lontana anni luce da quello che avevo attorno, eppure non ho mai lasciato nulla al di fuori del mio raggio. Non sentivo, non parlavo, non vedevo, ma conoscevo ogni punto debole di chi mi stava accanto.

Non appena ripresi il mio cammino, Cenk alzò la voce: «Allora faccia attenzione...» alle sue parole, buttate fuori quasi con sofferenza, strinsi lo sguardo, non riuscendo a capire le sue reali intenzioni «me lo prometta, per favore. Faccia attenzione!» mi girai a guardarlo. Annuii. Lo vidi farsi piccolo, sotto i miei occhi azzurri e freddi. Strinsi i pugni, come se volessi contenere la rabbia, come se volessi cancellare tutto il dolore che leggevo nelle pupille di Cenk, come se volessi liberarlo con me.

Tuttavia, evitando di approfondire l'argomento, lo cancellai dalla mia visuale e continuai la discesa agli inferi, pensando a come sciogliermi definitivamente da tutto questo nel minor tempo possibile.

Mi fermai fra i pilastri di un ampio arco che divideva l'esterno dal nucleo della festa. Le due guardie si raddrizzarono sul posto, in segno di saluto e rispetto. Ricambiai con un semplice cenno della testa e guardai dritto davanti a me. La sala, proprio come mi avevano descritto, era stata allestita egregiamente: c'erano veli dorati, statue, quadri, candelabri e persino una leggera melodia di sottofondo. Alla vista di più di cinquanta persone vestite come se fossero ad uno degli eventi mondani più importanti della Terra, sentii un brivido gelido percorrermi la schiena, lasciata scoperta.

Entrai. Il mio passo era sicuro e spedito, proprio come mi era stato insegnato. Mantenevo la testa alta e il portamento di chi la sapeva più di tutti quanti gli altri. Ogni tanto sfoderavo qualche piccolo ghigno per ringraziare, ma non mi fermavo mai abbastanza da poter cominciare una conversazione. Il problema era solo uno, non riuscivo ad intravedere mia madre, neanche in lontananza così da poterla rassicurare e poi procedere col piano B, operazioneMe, così avevo scelto di chiamare il mio atto di disobbedienza mentre scendevo lentamente i gradini, trattenendo il vestito più su per non inciampare.

Sapevo che accettare le condizioni che mi sarebbero state imposte, mi avrebbero portata inevitabilmente a trascorrere il resto della vita in casa di qualcun altro...
sotto la sorveglianza di uno sconosciuto che poteva essere chiunque.

Ero pronta a tutto,
ma non a distruggere quel che mi rimaneva.

"Out of control" - Gabriel Guevara FFDove le storie prendono vita. Scoprilo ora