Eleuterofobia

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Eleuterofobia: una paura eccessiva, persistente ed invalidante della libertà.

Sono pronta, devo solo trovare il coraggio di uscire da qui.

Il fatto è che è fottutamente difficile dopo ave passato qua dentro tre anni della mia vita.

La mia adolescenza, in pratica.

La differenza sostanziale tra me e le altre detenute era che in tutti questi anni loro avevano potuto scegliere se uscire o meno dalla proprio cella durante il giorno, dove sedersi a mensa, quando andare al bagno.

Io no.

Clinicamente ero stata definita come sociopatica, per cui ogni interazione con altri esseri umani là dentro poteva nuocere alle loro vite.

All'inizio ero convinta fosse tutto uno scherzo, ma...

Insomma, dopo anni che qualcuno ti tratta come se fossi un animale in gabbia inizi a pensare di esserlo davvero o sbaglio?

D'altronde, la natura umana tende a farsi influenzare facilmente dalle opinioni altrui.

E questo mi porta ad oggi, ovvero alla mia uscita da qui.

Il direttore era stato entusiasta quando mi aveva comunicato che data la mia buona condotta avrei scontato un anno dei quattro che avrei dovuto passare qua.

Probabilmente era solo contento di liberarsi di una schizzata.

Mi blocca qualcosa, di nuovo, cazzo.

Non qualcosa, qualcuno.

Sono io.

Non voglio uscire.

Non mi merito la libertà.

Il mio psichiatra dice che è normale per gli individui che hanno vissuto lunghi periodi di detenzione forzata sviluppare una fobia verso la libertà in quanto disabituati a vivere liberamente la propria esistenza.

Peccato che questa paura irrazionale vada a confermare maggiormente le convinzioni altrui, ovvero, che io sia completamente pazza, andata, rotta.

Una mano sulla spalla mi fa sussultare, ma impercettibilmente, in quel posto avevo imparato a non mostrare le mie reazioni, le mie emozioni.

Non che prima lo facessi, comunque.

"Che aspetti ad uscire? Anche il tuo ultimo giorno mi devi far innervosire, Barbera?" dice una voce profonda e scorbutica. Sposto lo sguardo, è Gregor. La guardia che doveva scortarmi fuori e che ogni giorno mi teneva sotto controllo. Un trattamento speciale solo per me. Ne avrei fatto volentieri  meno, ma il giudice a cui era stato affidato il mio caso non era d'accordo con me a quanto pareva.

Gli rivolgo un sorriso falso "Mi mancherai anche tu, Greg."

L'uomo sbuffa e mi dà una leggera spintarella per uscire. 

Mi manca il respiro, ma solo per un attimo, mi ricompongo immediatamente e inizio a camminare verso la fine del corridoio, attraverso la mensa, e infine, eccola là, una porta che dà sul cortile e successivamente conduce alla libertà.

Mi guardo intorno titubante, al che un'altra pacca, questa volta sulla schiena, mi obbliga ad avanzare.

Mi giro di scatto, fulminando il nonnetto pelato, che mi guarda con un sorrisetto soddisfatto.

Cazzo quanto lo odio.

"Prova a toccarmi un'altra volta e stai certo che questo non sarà l'ultimo giorno qua dentro per me, ma per te" dico con voce ferma.

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