I.

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Erano le cinque di un quieto pomeriggio parigino; settembre era alle porte e l'aria fredda del nord incominciava a soffiare verso la grande metropoli dalle Cité, così da entrare nei Boulevard, ed insinuarsi anche nelle vie più anguste.

"Cinquanta minuti alla chiusura!" si rigirava fra le mani un contenitore di plastica per i frullati.

Da sempre apprezzava i frappuccini alla cannella, ma, solo quando si era trasferito dalla periferica Busan alla egocentrica Parigi, aveva potuto assaporarli.

E da lì, quella nuova città odorava di zucchero, o comunque di un non so che di dolciastro, poco stucchevole e delizioso.

"Arriverai alle sei in punto o chiuderai cinque minuti prima?"

"È venerdì." rispose. "Nessuno lavora fino a tardi, di venerdì."

Per quanto potesse il suo collega insistere, Jeongguk era un osso duro, una testa calda, che spesso si piccava delle proprie idee, pur essendo illogiche ed insensate.

"Stupidi luoghi comuni!" ribatte' il collega.

"Pensavo la stessa cosa." Jeongguk alzò la voce nel momento in cui azionò il frullatore. "Ma appena ho messo piede a Parigi, ho capito che le persone se la prendono con comodo."

"Direi che hai abbandonato presto la tua routine da studente..." pulì il contenitore di caffè. "Ti sei... occidentalizzato."

Un espresso per favore. La loro conversazione venne interrotta da uno degli ultimi clienti.

Per solito la caffetteria del Louvre, già alla prima entrata, si gremiva di persone.

Chi veniva, chi usciva: quel piccolo Starbucks, adornato di poltrone marroni ed isolotti di legno, era sempre pieno di gente, così che conversazioni come la loro potessero esser fatte solo in assenza degli affollamenti mattutini e del primo pomeriggio.

"Qual è il suo nome, per favore?" il ragazzo si muoveva abile fra gli ordini da preparare e quelli da servire; affiancava Jeongguk nel suo lavoro quotidiano. "Jeanette. Mi chiamo Jeanette."

Ed allora "Un espresso per Jeanette." disse.

"Un espresso per Jeanette" ripete' Jeongguk.

"Credi di potercela fare con tutti questi ordini?" gli allungò un piccolo bicchierino con sopra la targhetta ed il nome. "Certo, Nam. Mi credi così poco dinamico?"

"Ti vedo stralunato, piuttosto." rispose, dunque, Namjoon.

"Sono solo stanco." caffè, panna e caramello. Tutte insieme sul banco mentre Jeongguk aggiungeva ordini su ordini da completare con quella abilità - a sua detta - dinamica.

"Sei giovane. Come fai ad esserlo?"

"Ti ho già ricordato che è venerdì, ed il venerdì prima della chiusura sono stanco!" Jeongguk si trovava perso fra lo studio ed il lavoro.

Più che perso, il suo collega lo avrebbe descritto fuori di sé; la testa che si perdeva fra i pensieri oltre le nuvole, così come quella di un artista.

E Jeongguk lo era. Era un artista un po' burbero, antipatico e distaccato all'apparenza.

Timido, ma non per davvero; e gentile solo coi fidati e le persone che chiedevano il suo servizio al bar.

Due parole erano fin troppo per lui, e perciò evitava le lunghe conversazioni.

A Parigi, uno dei pochi che potesse andargli a genio era, fino ad allora, il suo conoscente Namjoon. La convivenza li rese amici.

"È strano Jeongguk. I ragazzi della tua età, di venerdì, escono."

"Università, lavoro ed i miei disegni. Sono esausto."

MelRose | VKDove le storie prendono vita. Scoprilo ora