XIII.

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I sogni infranti di Taehyung s'erano realizzati in quel di Parigi, immerso nella nebbiolina di dicembre che anticipava il Natale.

Niente feste a Seoul per nessuno, quell'anno: solo la cité de l'amour brillava fra gli occhi pimpanti dell'attesa.

Ma la riflessione s'addensava fra i pensieri nella testa di Jeongguk dall'ultimo giorno in cui aveva visto- dal giorno in cui era stato alla mostra di San Miguel. Perché, per carità, lui non osava dire e fare niente.

La mostra era stata bella; la ripensava con piacere, ma c'era una sagoma lì per lì, accanto a lui, insieme con cui la osservava, e gli rimaneva sfuocata dalla volontà imposta del non ricordo.

Quel Taehyung oramai, si diceva, era stata solo una fiamma, flebile come il successo, che gli aveva promesso tutto e niente: Jeongguk, di San Miguel, non aveva nemmeno visto l'ombra.

E ci aveva sperato nei giorni seguenti, che lo richiamasse, ricercasse, chiedesse a Namjoon di lui, ma Namjoon proprio niente era intenzionato a dirgli, perché proprio niente aveva saputo di Taehyung per lui.

"Dovresti prepararti per gli esami- hai lasciato a metà il tuo seminario su Artemisia."

Artemisia: un nome, un ricordo. Ma più che passava il tempo, quel ricordo si trasformava in nome vuoto, in simbolo svuotato, così che Jeongguk lo pronunciasse solo con un intento professionale: non personale.

"Non mi va." tre parole, molto maschio. Molto da maschio.

"Non eri preoccupato per gli esami di dicembre?"

Era sera, e Claire era lì con lui. Namjoon aveva il turno fino alle sei e mezza di pomeriggio, quando a Parigi, già da dopo le prime ore del dopo pranzo, era ormai buio e le luminarie si accendevano, e penetravano fin là dentro il piccolo appartamentino della rue.

"Nahh..." un sospiro finto lo accompagnò in quella recitazione d'intenti, perché il non avere paura davanti ad una femmina era, ancora stucchevolmente, così da maschio. Lo preoccupava solo il fatto che il suo voler essere in quel certo e determinato modo prendesse a tratti la forma patologica del rifiuto dell'arte.

L'arte è per i sensibili. Io sono sensibile? E quel dubbio legato ai luoghi comuni nella sua testa lo attanagliava, così che vivesse un conflitto fra l'essere ed il convenzionale dovere.

"Jeongguk..." lo chiamò Claire. "Cerca di fare un buon lavoro. Sei bravo- puoi prendere un buon voto." dici? Ma non arrossì.

"D'accordo... mi metterò a studiare, non appena te ne sarai andata."

Non intendeva quello.

Jeongguk fraintendeva; viveva un momento in pace con sé stesso, e l'altro di tormento: si divideva fra il sì ed il no, il ricordo e l'oblio, come gli veniva da essere e quel che doveva essere, fra cosa gli veniva da pensare e cosa non dovesse pensare. Fra l'arte irrazionale e non, e l'apatia.

Jeongguk era ad un bivio.

"Toglimi una curiosità..." guardingo, chiamò Claire mentre finiva uno spuntino all'isolotto dell'appartamento. "Ti manca... questo?"

L'estremo del ridicolo, lei lo pensò per davvero: "Ma- dai!" e gli tirò il cuscinetto della sedia.

Jeongguk era disteso sul letto: i pantaloni grigi della tuta, una maglia a mezza manica il doppio della sua taglia, ed un cappellino di lana. Al primo dicembre, vestito per metà da estate e metà da inverno.

"Secondo me un po' sì..." e voleva essere considerato. Stava a gambe spalancate sul letto, convinto e se la credeva; di continuo a Claire, indicava le sue parti intime al di sotto dei pantaloni: gli mancava, quello.

MelRose | VKDove le storie prendono vita. Scoprilo ora