RICHARD
«Dove siete tu, Robert e Ben?» chiesi a Victoria, mentre controllavo che tutte le luci di casa fossero chiuse e che la manovella del gas sotto il piano cottura fosse spento.
«Al nostro solito bar» mi rispose, udendo di sottofondo altre voci.
Da quando Robert era riuscito a pubblicare il suo libro con una casa editrice newyorkese, sia lui che Ben avevano deciso di trasferirsi a New York.
«Va bene, perfetto. Sto arrivando» chiusi la chiamata, misi il telefono nella giacca e girai la chiave dentro la serratura della porta.
Scesi le scale e uscii dal portone. Ero pronto a raggiungere Victoria e gli altri, ma qualcuno aveva ben deciso di presentarsi sotto casa mia senza alcun preavviso. Solo quando poggiai la mano sulla maniglia della macchina, sentii pronunciare il mio nome oltre il cancello.
«Richard, figlio mio.»
Non dovevo voltarmi, non dovevo farlo.
Il mio cervello mi stava dicendo di aprire la portiera, entrare in auto e andare via, ma il mio cuore mi stava consigliando di fare la cosa opposta.
«Richard» mi richiamò, ancora. Chiusi gli occhi, sperando di star vivendo in un incubo. «Figliolo» ripeté.
Purtroppo, quello era tutto vero. Una realtà da cui stavo sfuggendo da molti anni e che, probabilmente, adesso era arrivato il momento di affrontare una volta per tutte.
Indietreggiai dalla mia macchina ed ebbi il coraggio di guardare in faccia quella persona che ripeteva il mio nome. Mi trovavo in una situazione di merda.
Le pupille degli occhi di mia madre si ingrandirono non appena incrociò il mio sguardo. Serrai il cancello di casa alle spalle e incrociai le braccia al petto come una sorta di protezione.
Calma e sangue freddo.
Non parlavo con lei da tanti anni, più o meno da quando avevo recuperato la memoria dopo il mio incidente.
«Perché sei qui?» saltai ogni tipo di convenevole.
Stette in silenzio, studiandomi intensamente tutto il viso. Non ci ritrovavamo così vicini da ormai parecchio tempo e mi stava fissando come se stesse cercando di ricordarsi del mio volto.
«Sei cresciuto così tanto» disse con un pizzico di paura.
«Cosa ci fai sotto casa mia?» provai a richiederle, accorgendomi che avesse ben deciso di sviare la mia domanda precedente.
«Possiamo parlare?» mi chiese «Sono tanti anni che...»
«Io e te non abbiamo niente da dirci.»
«Ti prego, tesoro.»
No, non volevo.
«Cosa cazzo vuoi...» non riuscivo a dire quella parola. Presi un respiro e poi un altro ancora. «Cosa cazzo vuoi, Diana?»
Strinse il manico della borsa, mentre udiva il suo stesso nome fuoriuscire dalle mie labbra.
Non avrei mai detto mamma. Lei non era mia madre. Credevo che lo fosse, per anni lo avevo pensato, ma dopo essere venuto a conoscenza della mia adozione, non mi consideravo più suo figlio.
Ma io, chi ero davvero?
Da quella scoperta, non smettevo più di ripetermi quella domanda. Ogni giorno, ogni fottutissimo giorno, speravo di trovare una risposta. In effetti, ultimamente volevo sapere qualcosa su di me e sulle mie origini.
«Voglio sapere tutto» tornai osservarla, improvvisamente.
«Cosa intendi, Richard?»
«Ho bisogno di conoscere la mia storia e dovrai partire dall'inizio senza ommettere alcun dettaglio. Voglio sapere chi sono, da dove vengo e, soprattutto, il perché mi avete adottato.»
Provò ad avvicinarsi a me. «È un discorso delicato, figliolo, credo sia meglio fare un passo alla volta.»
Un passo alla volta? Non avrei aspettato altro tempo.
Mi scansai da lei. I miei piedi si mossero indietro, permettendomi di distanziarmi da lei e dalla sua mano che voleva poggiarsi sopra il mio volto.
Quella donna che mi aveva cresciuto, in quel momento mi sembrava solo una sconosciuta.
«Delicato o no, poco importa. Non ho tempo da perdere, pretendo di sapere tutto. Ogni cosa, Diana.»
Sospirò, arresa. «Va bene, ti dirò tutto quello che vuoi sapere. Ma per favore, Richard, non chiamarmi Diana.»
«E come dovrei chiamarti, scusa?» restai serio «Dimenticati di quel termine, non credo che lo pronuncerò mai più.»
Girai la chiave dentro la serratura e spinsi il cancelletto per aprirlo. Mi misi di lato e le diedi il permesso di entrare. Quella conversazione andava affrontata faccia a faccia e in un luogo tranquillo.
Nessuno avrebbe dovuto interromperci, dovevamo parlare ed esserci solo io e lei.
La feci accomodare a casa, ci sedemmo su due sedie e adagiai i gomiti sul ripiano del tavolo. Ero davanti a lei, con i nervi tesi e le spalle contratte. Mandai un rapido messaggio a Victoria, dicendole che avrei fatto tardi e che dopo le avrei spiegato ogni cosa.
Al momento, non volevo farla preoccupare.
Victoria: Nessun problema, ma va tutto bene?
Digitai sullo schermo del telefono.
Richard: Sì, amore. Sono in videochiamata con il team della nostra azienda per una riunione urgente. Appena termina, vengo subito da te.
Non guardai la sua risposta e posai il telefono, con la suoneria abbassata, nuovamente nella tasca interna della giacca. Riosservai mia madre che, nel frattempo, stava bevendo un bicchiere d'acqua che le avevo dato appena entrati in casa.
Deglutì e posò il bicchiere mezzo pieno.
Eravamo entrambi nervosi.
Riprendere a parlare dopo anni di distacco, non era affatto facile. Lei aveva perso molte tappe della mia vita, non le avevo più permesso di poterne prendere parte.
L'unica cosa, ma non per volontà mia, era stato il matrimonio mio e di Victoria. Il giorno della cerimonia erano presenti sia lei che mio padre, eppure se fosse stato per me, non gli avrei mai permesso di partecipare.
«Bene, Diana» strinsi la mandibola «Proprio come volevi, ora possiamo parlare.»
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Anima di Fuoco
RomanceLEGGERE PRIMA ANIMA DI GHIACCIO, QUESTA È UNA NOVELLA Sono passati alcuni anni da quando Victoria e Richard hanno ammesso i loro sentimenti. I due si sono salvati a vicenda. Hanno allontanato i propri timori e paure. Hanno superato numerosi ostacol...