Capitolo quindicesimo *Luke*

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Sfrecciavo per il traffico tentando di non perdere mai d'occhio la piccola utilitaria blu, che viaggiava ben oltre il limite di velocità consentito.

Mi sudavano i palmi delle mani mentre stringevo il volante di pelle e dentro ribollivo di rabbia, ansia e panico.

Perchè diamine non poteva mai fermarsi ad ascoltare?

Perchè ero sempre costretto a rincorrerla?

Le strade di Annapolis rilucevano dei lampioni appena accesi nell'imbrunire e file di macchine si affrettavano a tornare a casa dopo una lunga giornata di lavoro.

Contrapposto a quel tranquillo spicchio di quotidianità, c'era il rombo del mio cuore nel petto, mentre continuavo quell'assurdo inseguimento.

Volevo solo parlarle, cazzo.

Non correre come un pazzo nel traffico rischiando il ritiro della patente.

Vedevo solo rabbia davanti a me, rabbia cieca, totalizzante.

Guidavo con un velo rosso davanti agli occhi e mi dicevo che ero stufo del suo egoismo, dei suoi comportamenti così infantili, del fatto che ogni litigio si trasformasse in un incendio emotivo dal quale ogni volta ne uscivamo ustionati entrambi.

Quelle sensazioni mi ribollivano a tal punto sotto pelle, mentre percorrevo all'inseguimento un ponte, che a malapena riuscii a realizzare ciò che mi si materializzava davanti agli occhi.

La piccola utilitaria che stavo seguendo sbandò improvvisamente sull'altra corsia, per colpa dell'eccessiva velocità.

Fu questione di secondi e rumori di sterzate di pneumatici sull'asfalto, poi lo schianto.

L'auto finì a tutta velocità contro un grosso camion, in un frontale che mi tolse qualsiasi rimasuglio di fiato nei polmoni.

Fu un attimo, poche frazioni di secondo.

L'auto rimbalzò con un rumore infernale all'impatto e senza che avessi nemmeno il tempo per respirare, spaccò violentemente il guardrail e precipitò nel vuoto oltre il ponte.

Ero sicuro che l'urlo che mi uscii dalla gola non era qualcosa di umano: era atavico, primitivo, veniva dalle più profonde viscere di me.

L'atmosfera attorno a me era diventata rarefatta, il mondo silenzioso, illuminato solo dalle luci dei veicoli dei soccorsi.

Ero forse morto anche io?

No.

Purtroppo non lo ero.

*

Mi svegliai urlando, ricoperto di sudore e con il cuore che mi martellava incessantemente nel petto.

La stanza buia, testimone perpetua dei miei incubi, inghiottì il mio urlo e mi restituì solo un silenzio assordante.

Era ormai un'abitudine svegliarmi così durante la notte, erano anni che andava avanti e nè psicologi, nè medicine, nè l'intorpidimento dell'alcol erano mai riusciti ad aiutarmi.

Calciai le coperte e strizzai forte gli occhi per cercare di scacciare quelle immagini strazianti dalla mia mente, ben consapevole che per quella notte non avrei più chiuso occhio.

Uscii dalla camera da letto e andai verso la piccola cucina della mia stanza, per versarmi un bicchiera d'acqua. Lo bevvi voracemente, lasciando che quel liquido fresco desse un pò di sollievo, spegnesse quel fuoco che avevo dentro.

Per anni avevo cercato disperatamente qualcosa che mi potesse dare sollievo, non soltanto la notte, ma che mi aiutasse a vivere le ore della giornata come se non mi sentissi costantemente affogare in quello sconfinato senso di colpa.

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