White, Red and a sad fairy tail

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You are my apple sin 

Capitolo 14 

"White, Red and a sad fairy tail"


E' proibito non fare le cose per te stesso, avere paura della vita e dei suoi compromessi, non vivere ogni giorno come se fosse il tuo ultimo respiro.

- Pablo Neruda

Pov Jeremy

Guardavo il nulla, guardavo il bianco.
Non era un brutto colore? Era il colore delle pareti asettiche dell'ospedale, il colore della mente quando non riusciva a pensare, il colore dell'immobilità, del senso di vuoto.
Infatti, in quel momento ero vuoto.
Non riuscivo a pensare, tutto era bianco come il nulla e rosso come il sangue che ancora sentivo caldo sulla mia mano, nonostante fosse pulita e l'avessi sciacquata e risciacquata più volte, fino a farla quasi sanguinare con il mio sangue.
Guardavo di fronte a me, le mie mani si contorcevano, cercavo ancora di pulirle nei pantaloni, mentre ero seduto su una di quelle rigide sedie nere della sala d'attesa del pronto soccorso; proprio davanti alla porta della sala operatoria, dove si era accesa quella dannata luce rossa che simboleggiava il fatto che stessero operando.
Avevo paura, una fottuta paura di rimanere solo, di nuovo. Non mi importava se con le sue ultime parole Dominic mi aveva promesso che sarebbe tornato da me, avevo comunque il terrore che prima o poi il medico sarebbe uscito, vestito di verde, leggermente insanguinato, la mascherina che pendeva dal suo orecchio e avrebbe scosso la testa, rivelandomi così che non ce l'aveva fatto, che era morto; proprio come avevano fatto con mio padre.
Ricordavo ancora quando quel giorno avevo seguito mamma in ospedale, ricordo gli occhi tristi del medico che aveva tentato di salvarlo, ma senza riuscirci.
Tremai. Tremai, ma non piansi, le lacrime erano finite, non volevano uscire anche se gli occhi mi pizzicavano, le mani non stavano ferme e i piedi battevano lo scorrere dei secondi a terra.
Tutto mi sembrò come allora, forse meglio, forse peggio, non lo sapevo.
Ero così stanco, così vuoto, che non vidi nemmeno Conrad arrivare e sedersi al mio fianco fino a che non mi abbracciò.
Mi voltai verso di lui, verso quegli occhi così vivi e cristallini, azzurri come il cielo, mi guardavano comprensivi.
-Andrà tutto bene. – mi rassicurò lui, staccandosi e scompigliandomi i capelli –Dominic è forte. -.
Io mi limitai ad annuire e a cercare di ingoiare quello strano groppo che mi si era formato in gola e che non mi permetteva di respirare.
Non ci riuscivo a non avere paura.
-S... se non ce la facesse? – mi arrischiai a chiedere, la voce bassa, quasi un sussurro. Mi portai una mano davanti alla bocca, mentre un singhiozzo cercava di farsi strada e la cascata di lacrime ripartiva di nuovo, ricreando il suo flusso di corrente.
Lui mi prese la mano libera e me la strinse. Esprimeva speranza, cercava di passarmi la sua forza, ma forse anche la sua insicurezza.
-Ce la farà. – disse con decisione –Ne ha passate tante e passerà anche questa. Non mi farebbe mai questo e non lo farebbe a te; non permetterebbe mai a nessuno di noi due di farci seppellire un altro caro. –.
Lo guardai confuso e lui mi sorrise comprensivo, ritirando la mano e alzandosi.
-Ti va qualcosa di caldo? Stare qui è inutile per ora. – guardai di nuovo nervoso verso la porta, mordendomi il labbro inferiore, ma poi annuendo.
Era dentro da due ore, probabilmente ne sarebbe trascorsa ancora una prima che portassero qualche notizia.

Pov Conrad

Si fece trascinare fino al bar dell'ospedale che era ancora aperto nonostante l'ora tarda. Solo qualche medico, che doveva essere in pausa, occupava alcuni dei tavoli presenti.
Ordinai per entrambi una tisana calda, per distendere i nervi e poi raggiunsi Jeremy che con lo sguardo pieno di tristezza e senso di colpa guardava davanti a sé.
Era pallido, fin troppo, continuava a tormentarsi le mani e a spiegazzarsi i vestiti che doveva avevano avergli dato in ospedale o che aveva preso al volo prima di seguire Dominc sull'ambulanza e dare il mio nominativo all'infermiera.
Mi sedetti di fronte a lui e i suoi occhi verdi, spenti, ma allo stesso tempo vivi e belli grazie a quel dolore che stava provando si puntarono su di me.
-Sai, odio gli ospedali. – iniziai, non sapendo bene cosa era bene dire oppure no, ma sapevo che in qualche modo dovevo fargli comprendere come Dominic era arrivato ad essere mio figlio.
Lui annuì appena. –Anche io. – sussurrò con voce rotta, stropicciandosi un occhio per asciugare le lacrime.
-La prima volta fu quando ci accompagnai mio figlio. – dissi sorprendendolo –Era un bellissimo ragazzo, sai? Mi assomigliava un po', ma era bello come sua madre. – sorrisi, tirando fuori dal portafoglio una foto del mio figlio naturale: capelli biondi, occhi azzurri; somigliava al principe azzurro delle favole, quello perfetto, dolce, magnifico che poteva arrivare da un momento all'altro sul suo bianco destriero.
Gli porsi la foto, ma non prima di averne accarezzato il viso.
Lui la prese e lo osservò attentamente. –E' morto? – chiese con voce triste, andando subito al sodo. Ridacchiai tristemente, mi ricordava Dominic quando aveva la sua età. Nemmeno un po' di tatto, ma forse non era dipeso dall'adolescenza, ma dalle dure esperienze di vita che avevamo vissuto.
La morte, dopotutto, aveva colpito tutti e tre.
-Era depresso e io non me ne ero mai accorto. All'epoca lavoravo troppo e sua madre era già malata di cancro e andava avanti e indietro per gli ospedali; non voleva sobbarcarci di un altro ulteriore problema. Era dolce il mio Sam, dolce e bello come un principe azzurro, ma a questo principe non piacevano le principesse. – ripresi la foto che il rosso mi stava restituendo e la tenni in mano, guardandola mentre parlavo. –Come a te e a Dominic piacevano gli uomini, ma questo l'ho saputo solo dopo la sua morte. Si era tenuto tutto dentro... aveva paura del mio giudizio e quello della madre. – Strizzai gli occhi, chiudendoli e stringendo i pugni con forza. Faceva ancora male la consapevolezza che lui non si era mai fidato di me, ma forse aveva ragione: come appoggiarsi a un padre che non si vede mai, che si scorda pure i tuoi compleanni?
-Se glielo avesse detto come l'avrebbe presa allora? – chiese Jeremy, curioso.
-Gli avrei detto di andare là fuori e conquistare il ragazzo più bello del mondo. – dissi sicuro –Io... era mio figlio, lo avrei amato comunque. – iniziai a piangere, portandomi una mano davanti alla bocca mentre sorridevo e guardavo quella foto, la seconda cosa che mi era rimasta di lui oltre alla sua ultima lettera.
-Ma ha deciso di togliersi la vita, di suicidarsi... - rivelai con tono grave, cupo. Ancora non mi ero perdonato, probabilmente non lo avrei mai fatto.
-Lo bullavano a scuola, lo percuotevano e lo... violentavano. – dissi con voce che quasi non mi sembrò mia –Si uccise perché non vide altra via d'uscita. Ci lasciò solo una lettera in cui si scusava e ci diceva addio. –.
-Ha fatto un errore che ha pagato con la vita. – sentenziò il ragazzo che avevo di fronte. –Avrebbe dovuto fidarsi di lei; è un buon padre e una brava persona. -.
Gli sorrisi nel pianto.
-Mia moglie morì poco dopo; la malattia e il dolore l'avevano stremata. – presi un profondo respiro e cercai di calmarmi –Dominic lo conobbi poco più tardi, in un orfanotrofio. –.
Lo guardai, indeciso se continuare.
-Forse è meglio tornare di là. – disse alzandosi, proprio mentre arrivava la tisana.
Sorrisi. Era il ragazzo perfetto per Dominic.

Pov Jeremy

Mi ero addormentato senza accorgermene. A svegliarmi fu Conrad, che pazientemente mi aveva prestato la sua gamba come cuscino, accarezzandomi i capelli con dolcezza, come solo un padre sapeva fare.
Ci misi qualche attimo per riuscire a mettere a fuoco la figura del dottore che si stava avvicinando, ma ci misi molto meno ad alzarmi e avvicinarmi, mentre il mio cuore batteva così forte da essere quasi assordante.
Ogni passo mi sembrava così pesante, così soffocante, da aver l'impressione di star annegando grazie a una forza invisibile che mi schiacciava sott'acqua, che mi rendeva difficile rimanere a galla.
Il dottore si tolse la mascherina, sembrava stanco, molto stanco. Quanto avevo dormito? Quante ore era rimasto sotto i ferri?
Lo guardai con terrore.
Come poteva una vita umana dipendere da qualcuno? Era terrificante.
-Sta bene. – disse e immediatamente le gambe mi cedettero; fu solo grazie al padre di Dominic e al dottore se rimasi in piedi.
Sentivo gli occhi pizzicare, calde scie fuoriuscire dai miei occhi in un moto incontrollato, mentre la mia bocca si inarcava in un sorriso innaturale.
"Era vivo, stava bene." Questo era tutto ciò che la mia testa riusciva a ripetere in una nenia infinita come un mantra, mentre i due adulti mi aiutavano a sorreggermi, mentre mi trascinavano di nuovo a sedere.
Era vivo. Era vivo.
Una volta seduto il medico, nonostante la stanchezza, mi diede un'occhiata e appurato che il mio cedimento era stato solo a causa dell'amozione si rialzò e tornò a parlare, rivolgendosi verso Conrad, che mi guardava preoccupato, ma non ci badai più di tanto.
Era vivo. Era vivo.
-La ferita ha provocato più danni di quel che sembrava, ma non ha mai ceduto. Abbiamo risanato le zone lese e fermato l'emorragia; il cuore si era fermato qualche volta, ma ha sempre ripreso. E' stato un vero guerriero. – spiegò il medico, mentre le porte della sala si aprivano, ma non per Dominic.
Alzai lo sguardo verso il chirurgo, ponendogli una domanda silente.
-E' già di sopra, non si sveglierà prima di qualche ora; sentirà dolore, indolenzimento e dovrà rimanere qui sotto controllo per almeno due settimane. – informò, ma io già non lo stavo più ascoltando.
Mi alzai, le gambe erano ancora molli, ma non mi importava; dovevo assolutamente andare da lui.
Mentre i due adulti si allontanavano lasciandomi da solo, mi diressi verso le porte dell'ascensore ed entrai. Non sapevo a che piano fosse o in che riparto, men che meno il numero della stanza, ma mi lasciai guidare dal cuore.
Lessi a uno ad uno i nomi dei reparti sul cartello e optai per "terapia intensiva" di solito in televisione andavano tutti là dopo un'operazione così grave.
Schiacciai il tasto del nono piano, le porte si chiusero e quella cabina di metallo iniziò a sussultare per poi muoversi verso l'alto.
Odiavo quelle dannate quattro pareti di metallo, assomigliavano a una gabbia; mi toglievano il fiato, il respiro e mi facevano sudare le mani, poiché mi rendevano nervose.
Se si fosse fermato? Che avrei fatto?
Per mia fortuna quelle due porte scorrevoli si aprirono dopo pochi istanti e di nuovo potei respirare, anche se odiavo quell'odore di disinfettante che mi faceva bruciare il naso.
A quell'ora tutto era buio, sebbene il fuori il cielo avesse iniziato a prendere i colori dell'alba. Senza farmi vedere dalle infermiere, che sicuramente mi avrebbero mandato via, mi addentrai in quel lungo corridoio.
Le porte erano tutte chiuse e questo rese più difficile la mia ricerca, ma come si diceva quando hai una bussola è impossibile perderti, anche mentre vai all'avventura, e non stavo parlando di semplici bussole; no.
La mia bussola era fatta di cuore e la mia lancetta puntava dritta verso l'amore; non c'entravano nulla le leggi di Biot-Savart o l'esperimento di Orsted; non c'era alcun campo magnetico a guidarmi, beh forse solo un pochino, ma soprattutto era il sentimento.
Mi fermai davanti alla camera 124; il 12 aprile, il giorno in cui ci incontrammo.
Posai la mano sulla maniglia della porta, mi morsi il labbro inferiore. Di nuovo sentivo il cuore a mille, mentre mi mancava il fiato, mentre tutto mi sembrava pericolosamente vorticare e una strana e prepotente nausea mi nasceva alla base dello stomaco.
La feci scivolare molto lentamente verso il basso e poi senza far troppo rumore aprii lentamente quella spessa porta bianca e argentea.
Il sangue che vorticava come foglie d'autunno trasportate dal forte vento all'interno delle mie vene.
Entrai con passo felpato, come un ladro. Il solo ricordare quell'ultimo lemma mi fece rabbrividire, mentre i ricordi e la rabbia ritornavano prepotenti, risalendo, cancellati però dalla visione di Dominic, del mio Dominic, steso su quel letto d'ospedale, la testa adagiata su uno di quei cuscini duri, quando a lui piacevano morbidi.
La sua pelle era più pallida del normale, le labbra stavano riprendendo un colore roseo, ma tendevano ancora ad un innaturale blu; sotto i suoi occhi c'erano delle marcate occhiaie, dal suo polso partiva un tubicino rosso che stava donando lui del sangue.
Avevo paura di quel liquido rosso quando non proveniva da un mero taglietto fatto con la carta o dal graffio di un gatto.
Sangue; liquido di vita.
Chissà da quale radice proveniva tale parola. Probabilmente dal latino "sanguis".
Mi avvicinai a lui, sedendomi sul bordo del letto e prendendogli dolcemente una mano, stringendola senza fargli male.
Era bello anche in quel frangente, bello come una rosa imperitura e rossa scarlatta.
Odiavo le rose, non le sopportavo, ma anche se lui era rosa lo avrei amato in ogni caso, perché lui era lui e nessuno avrebbe mai potuto sostituirlo e finalmente lo avevo capito; anche se a quale prezzo?
-Ti amo. – dissi con un filo di voce inudibile, protendendomi verso di lui e baciandolo a stampo.
Mi portai una mano a quella collana che ormai portavo sempre, quella che mi aveva regalato, e la strinsi.
-Ti amo. – dissi ancora, con più decisione, prima di restare al suo fianco per tutta la notte.

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