Capitolo 3 (Prima parte)

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La targhetta di ottone opaco affissa alla porta di legno recitava: Philip T. Lightman, Parapsicologo.

Fissai pensieroso quelle lettere dorate incise in un elegante carattere corsivo. Che cosa assurda, dovrei tornare indietro?

Contattare Philip Lightman era stata una decisione troppo affrettata, dovuta alla paura che avevo provato nel riconoscere il cadavere sulla spiaggia. Ripensai agli avvenimenti che mi avevano portato lì, di fronte a quel portone dalle venature scure. Non ero rimasto insieme ai curiosi che si erano avvicinati per vedere il corpo di quel ragazzo. I miei piedi si erano mossi sotto quel nuovo shock, nella testa mi balenavano mille domande: perché quell'uomo mi somigliava così tanto? Era davvero il mio cadavere? No, non era possibile. Eppure mi somigliava, anzi, ero proprio io. Quei miei pensieri deliranti erano stati soppressi dallo strepitare di un clacson alle mie spalle, seguito da un ronzio che mi era sfrecciato accanto, investendomi con un getto di aria e riportandomi alla realtà come una secchiata di acqua gelida. Era bastata una veloce occhiata alla pavimentazione grigia, delineata da una lunga linea discontinua, per capire che ero nel mezzo della tangenziale.

Con uno scatto fulmineo, mi ero lanciato al di là della carreggiata e mi ero arrampicato sul guardrail con la grazia di un montone, rimanendoci sopra a cavalcioni. Una leggera spinta era stata sufficiente per farmi cadere con la schiena sul rettangolo di erba sfalciata che delimitava le due carreggiate. L'impatto era stato forte, tanto da mozzarmi il fiato e da lasciarmi steso lì, trafelato e con la schiena dolorante, a guardare il cielo terso. Quell'azzurro tenue era stato squarciato da un flash accecante che mi aveva ferito gli occhi, costringendomi a voltare lo sguardo su un muretto di cemento grigio. Da quella posizione, avevo visto la gigantografia di uomo di bell'aspetto con le braccia incrociate, intrappolato in un pannello di acciaio grigio, che sorrideva a bocca stretta ai guidatori. Mi ero seduto portando una mano sopra gli occhi, per cercare di smorzare il riverbero del sole che cozzava contro lo scheletro grigio del cartellone stradale, e lessi la frase enigmatica che recitava: La nonna morta vuole sapere se hai mangiato? Chiama Phil Lightman-parapsicologo.

Un parapsicologo?

Sapevo a grandi linee di cosa si occupasse un parapsicologo e ritenevo che a praticare quella professione fossero solo cialtroni che millantavano poteri magici. In quel momento, però, preda di una specie di catalessi che mi aveva inebetito il cervello, avevo afferrato il cellulare e digitato il numero che il cartellone suggeriva. Spiegata alla persona all'altro capo del telefono, probabilmente lo stesso Lightman, il mio urgente bisogno di un consulto, avevamo fissato l'incontro per il giorno seguente alle dieci del mattino. Terminata la chiamata, ero stato investito da un senso profondo di vergogna per quello che avevo appena fatto. Davvero avevo contattato un parapsicologo?

Ero tornato a casa tentando di trascorrere il resto della giornata come se nulla fosse accaduto, sempre più convinto di aver fatto una sciocchezza. Quell'idea non mi aveva lasciato stare neanche per un secondo, costringendomi a una notte insonne. Alle otto, ancora indeciso se presentarmi all'appuntamento, mi ero preparato una tazza di caffè, fatto una doccia, sistemato barba e capelli, e dopo aver messo lo scrigno dentro una busta, ero uscito per prendere una boccata di aria fresca. I pensieri vorticavano insistenti nella mia testa, quesiti a cui non sapevo dare risposta, paura, indecisione non mi volevano lasciar stare. Senza rendermene conto, avevo camminato fino al luogo dell'incontro, trovandomi proprio lì, di fronte alla porta del parapsicologo. Tornai con la mente al presente e guardai la lancetta del mio orologio da polso che segnavano le dieci e tre minuti. Ormai ho fatto trenta, pensai. Presi un respiro profondo per calmarmi e premetti il pulsante del citofono, che squittì con un ronzio stridulo. La porta si aprì con uno scatto secco, la spinsi senza esitazione ed entrai in una stanza minuscola, dalle pareti tinteggiate di uno scialbo color ocra. L'arredamento era minimale, un divanetto bitorzoluto verde acido era stato abbandonato in un angolo della stanza, insieme a un tavolino di vetro dai piedi ricurvi. Non vi erano oggetti insoliti a testimoniare la professione di parapsicologo, come statue di santi, crocifissi, strani simboli esoterici o carte astrali, quasi a voler suggerire un approccio alla parapsicologia saldata sulla razionalità e nella ricerca scientifica più che nel mistico. Ancora fermo accanto alla porta, mi soffermai a studiare l'uomo seduto dietro a una scrivania di legno chiaro, invasa da cartacce e libri di varie dimensioni dalle copertine lise e piene di polvere.

Mnimi-Lo scrigno dei ricordiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora