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"Forse, quando smetteremo di
combattere soltanto per noi
stessi, inizieremo a vincere."

Zulema's pov

                             -16 anni prima-

'Corri Zulema. Corri.'
I muscoli delle gambe mi fanno male, i miei anfibi pestano l'asfalto rumorosamente.
I polmoni cercano disperatamente ossigeno, ma io non mi fermo.
Non posso. Non adesso.
'Corri Zulema, corri e non guardarti indietro.'
La villa ormai è lontana, ma non quanto il dolore che ho subito al suo interno. Vorrei potermi lasciare alle spalle anche quello e forse un giorno lo farò.
Supero le vetrine dei negozi, ormai chiusi per via dell'orario, svincolo tra la gente che mi osserva confusa, passo accanto alle scale che portano giù alla metro, e arrivo nel centro di Madrid.
Madrid. Il paese nel quale mi sono appena trasferita, 7 mesi fa, e dal quale sto già scappando. Dopo una vita passata in Marocco sapevo che qui non sarei stata meglio.
Cambia paese, cambia vita, cambia lingua, ma ciò che è dentro di te non cambierà mai. Ti perseguiterà sempre.
'Corri Zulema, corri e lasciati tutto alle spalle.'
Con le guance arrossate e il fiatone, finalmente mi fermo, buttandomi a peso morto su una panchina libera.
Lentamente alzo la manica della felpa oversize che nasconde tutte le forme del mio corpo, che non sopporto, e osservo le bruciature sul polso che mia madre mi ha appena procurato con quelle odiose sigarette che fuma.
A volte spero che quelle cose la uccidano e non sento alcun rimorso a questo pensiero.
Se lo meriterebbe.
È da tutta la vita che mi ignora, che mi lascia a mille tate diverse e, quando deve proprio subirsi la mia presenza, mi fa capire fino in fondo quanto quest'ultima la irriti.
Perciò sono finita a preferire l'indifferenza.
Oggi ho origliato una sua conversazione con un uomo imponente, vestito di tutto punto, con degli occhiali da sole calati sugli occhi ed un marcato accento russo. Appena si è accorta della mia presenza si è scusata con lui e mi ha trascinata in camera mia, dove appunto ha fatto quello che ha fatto.
Mi mordo il labbro inferiore cercando di ignorare il dolore mentre nella mia mente spero che questi segni andranno via. Ma sono abbastanza grande per sapere che probabilmente diverranno delle cicatrici, e la speranza non ha mai fatto parte della mia vita.
"Fanculo..." borbotto tra me e me in arabo, nascondendo con vergogna quelle bruciature.
"Chi ti ha fatto quei brutti segni?"
Una voce vellutata, ma calda e decisa giunge alle mie orecchie. Ha un marcato accento americano, che non è sfuggito alle mie orecchie esperte. Mi volto, alzando lo sguardo, e vedo una ragazza seduta accanto a me. Non mi ero neppure accorta che ci fosse. Ha il cappuccio di una vecchia felpa nera calato sulla testa, e dei jeans strappati le fasciano le gambe snelle.
Aggrotto la fronte, irritata. "Ci conosciamo?" le domando tornando a guardare gli imponenti palazzi davanti a me.
Un odore acre di tabacco si libra nell'aria e capisco che dev'essersi accesa una sigaretta. Serro i pugni, irritata da quel odore che mi è sempre piaciuto, ma che ho iniziato a non tollerare per ciò da cui proviene. E dopo oggi, ancora meno.
"No." ammette, mentre la osservo con la coda dell'occhio. "Ma ha importanza?"
Scrollo le spalle con sufficienza. Che domanda strana, certo che ha importanza. Chi cazzo la conosce?
Irritata dal mio silenzio, la sento sospirare mentre una nuvola di fumo avvolge anche me. "Sei araba, vero? Non che io lo capisca, ma mi sembravano in arabo, le parolacce che hai dentro prima."
Avendo guadagnato la mia attenzione ottiene nuovamente anche il mio sguardo. "Come fai a sapere che erano parolacce se non lo conosci?"
Stavolta è lei ad alzare le spalle, con un sorriso appena accennato. "Intuizione."
Cala il silenzio tra noi mentre il rumore frenetico della città prende il sopravvento.
Ripenso alla domanda iniziale che mi ha fatto e forse non sarebbe così male parlarne.
A maggior ragione essendo una sconosciuta. Non la incontrerò mai più, ma dire la verità ad alta voce potrebbe essere un bel modo per sfogarmi.
"È stata mia madre." ammetto finalmente, sentendo il sangue gelarmi nelle vene. L'ho detto.
Invece di sembrare scioccata come dovrebbe, lei fa una smorfia con le labbra, che mi soffermo a guardare un secondo di troppo notando come sono leggermente screpolate ma carnose. "Bella merda, no?" commenta.
Io annuisco piano.
Le ho rivelato di essere araba, ora voglio sapere se anche la mia intuizione è giusta. Lo sarà di sicuro. Conosco bene l'inglese, sia quello britannico che quello americano, così come lo spagnolo, il francese, il russo, il portoghese e ovviamente l'arabo.
Mia madre mi ha fornito un'istruzione rigida sin da piccola e ormai, a 16 anni, quando parlo in spagnolo il mio accento non si nota più. Ma quello di questa ragazza si.
"Da quanto sei qui a Madrid?" mi convinco a domandarle.
Ma la mia domanda viene portata via col vento, perché lei non risponde. Col dito picchietta sul filtro della sigaretta, facendo cadere per terra un po' di cenere, e poi me la porge.
La confusione alleggia sul mio viso, mentre mi irrito. Perché crede che io voglia quella cosa? "Non fumo." decreto rigida.
Alza un sopracciglio. "Hai mai provato?"
"No. E non ne ho intenzione." Le bruciature a contatto con il tessuto della felpa iniziano a dolermi, perciò mi arrotolo le maniche. "Mia madre fuma e mi ha fatto ciò con quella merda."
"Capisco." afferma seria, tacendo un'istante. Il modo in cui non fa domande, non chiede cose inopportune ne mi costringe a fornirle alcuna spiegazione, la rende simpatica ai miei occhi. Può essere che mi capisce davvero, senza bisogno di dire nulla? Alza lo sguardo sul tramonto che albeggia in cielo e sospira. "Sai, c'è qualcosa di incredibilmente potente nella sensazione di farsi del male da sola. So che detto così può sembrare strano o macabro, ma io so bene che questa roba uccide. Lo sanno tutti coloro che fumano. Eppure lo fanno ugualmente. Io lo faccio perché la vita mi ha ferita già abbastanza e continuerà a farlo, perciò perché non posso avere io il potere? Una parte, una piccola parte di potere decisionale su me stessa e sulle mie ferite? Decidere come farmi del male..." sussurra le ultime parole tra sé e sé, ragionandoci su. Io la osservo con le braccia incrociate, mentre assorbo quelle parole. Il suo modo di parlare mi innervosisce e mi attira al tempo stesso, perché dice cose maledettamente strane, ma non così sbagliate. È come se traducesse in parole i miei pensieri, quelli che fanno paura a mia madre da una vita, quelli che fanno paura anche a me a volte.
Vedendomi pensierosa alleggerisce la situazione con una risata tenue. È un suono...bello. Puro. "Beh c'è anche un motivo più semplice eh. Mi piace, punto. Mi rilassa..."
Mi incuriosisco. "Cosa c'è di rilassante nel aspirare del fumo?"
Affonda una mano nelle tasche. "La nicotina, suppongo. D'altronde crea dipendenza e quando qualcosa ti crea dipendenza la perdoni, anche se ti fa del male. Anche se è una persona...Quindi? Vuoi provare?"
Le sue parole mi lasciano sempre sconcertata, i concetti che riesce ad esternare questa ragazza così giovane ma che conosce la vita così bene.
Mi accorgo che sta attendendo una mia risposta. Voglio provare? Incerta allungo la mano, prendendola e sfioro le dita di quella ragazza. Le sue mani sono fredde e rabbrivisco appena, ma il contatto con la sigaretta calda mi scalda subito.
La tengo tra le dita come ho visto fare a lei, con un po' più d'impaccio, e prendo un tiro aspirando quel fumo in modo fin troppo giusto per essere la prima volta.
Sento il naso pizzicarmi appena e tossisco. "Cazzo..."
Di nuovo quella risata cristallina riempie il silenzio. "E menomale che era la prima volta! Vacci piano, little one."
Quel nomignolo inglese mi fa accelerare qualcosa nel petto, che subito condanno con la parte razionale del mio cervello. "Non mi chiamare così."
"E perché?"
"Perché non sei più grande di me. Scommetto che abbiamo la stessa età."
La prende come una sfida. "Ah sì? E se non fosse così? Se io fossi più grande di te?" domanda con tono giocoso, mentre si avvicina piano a me riducendo sulla panchina lo spazio che ci separa. Ora la sua gamba sfiora la mia e il punto in cui avviene quel mero contatto diventa il centro della mia attenzione.
"Cosa?" domando trattenendo una risata nervosa, e mi mordo la lingua per quel tono che non è fermo come vorrei. Lei invece sembra completamente a suo agio.
Io sono ben consapevole che mi piacciono le ragazze, è sempre stato così e ne ho preso consapevolezza un anno e mezzo fa, ma nessuno deve saperlo chiaramente.
Non oso immaginare la reazione di mia madre, che già mi odia a sufficienza, nel sapere una cosa del genere.
Fatto sta che non ho mai avuto modo di fare esperienze, non ho mai avuto una ragazza a questa vicinanza prima d'ora, e la tensione che sto provando è piacevole ma strana al contempo.
Cazzo, non so nemmeno come si chiama.
"Io ho 17 anni." sentenzia per chiudere quella conversazione, ed io distolgo lo sguardo sbuffando.
Lei capisce di aver vinto. "Ah, lo sapevo! Sei più piccola." mi lancia un lungo sguardo alle labbra, facendomi agitare. "Spero non troppo..."
Con la gola secca per quell'affermazione, farfuglio la verità. "Ne ho 16."
Tira un sospiro di sollievo teatrale. "Allora non c'è problema."
"Per cosa dovrebbe esserci problema, esattamente?"
Scuote la testa sorridendo, come se non potessi capire. "Lascia perdere. Piuttosto...come ti chiami?"
"Eh no." contesto riprendendo le mie facoltà mentali. E fisiche, almeno credo. "Prima devi rispondere alla mia di domanda, che hai ignorato."
Controvoglia annuisce. "E va bene. Si sono americana, ma vivo qui da due anni ormai. Contenta?"
"In parte. Comunque, mi chiamo Zulema."
"Zulema...zulema..." ripete a bassa voce guardando la panchina, dando un suono tutto nuovo al mio nome, non solo per la sua strana pronuncia di esso, ma per il modo in cui sembra affascinarla. "Mi piace. È un bellissimo nome."
Le faccio un cenno col mento. "Tocca a te."
Si stringe nelle spalle. "Alaska...Lo so, il tuo è molto più particolare e affascinante."
Il mio nome le piace. Mi sfilo un anello dal dito per giocherellarci, agitata. "Anche il tuo lo è."
Sorride guardandomi dritta negli occhi e il mio sorriso si allarga involontariamente. I suoi occhi sono azzurri, ma è un azzurro diverso da tutti quelli che ho visto. Non è tanto il colore, uguale a quello del mare d'inverno, ma il mondo nascosto che scorgo dietro ad essi.
Improvvisamente li abbassa sulla mia mano destra. "L'hai sprecata." constata un po' contrariata. "Ora puoi gettarla."
Confusa, abbasso lo sguardo e capisco che parla della sigaretta che ormai è arrivata al filtro senza che neppure me ne accorgessi. La lascio cadere per terra, schiacciandola con la scarpa. "Se...se vuoi domani ti porto un pacchetto. Mia madre ne ha tante in casa."
Mi scruta un secondo e mi fa cenno di stare tranquilla. "Non devi sentirti in debito con me. E poi, forse dovrei smettere..." ammette senza smettere di guardarmi, così intensamente che sembra voglia leggermi dentro.
'Non farlo. Non hai idea di che cosa potresti trovarci dentro di me. Scapperesti anche tu. Anch'io sto cercando di scappare da me stessa.'
"Hai degli occhi bellissimi Zu, lo sai?"
Mi muovo appena sulla panchina per non farle notare la mia reazione a quel complimento. Mi ha appena affibbiato un nuovo nomignolo. Perché i suoi nomignoli mi piacciono? "Grazie..." borbotto.
So di avere degli occhi particolari. Sono verdi. Di un verde smeraldo, talmente intenso che spesso la gente per strada si gira a guardarmi. Ma per me non è una cosa bella, è una condanna, perché ho sempre l'impressione che non mi guardino per quel motivo ma per scorgere cosa c'è che non va in me.
'Le radici. Le radici che mi hanno cresciuta così. Non puoi pretendere che l'erba spianata al ciglio della strada cresca anche dritta. Dovresti ringraziare che c'è, innanzitutto.'
Senza la più pallida idea di cosa dire ammutolisco, mentre una folata di vento porta con sé il profumo della ragazza al mio fianco: mare e tabacco. Lo respiro, memorizzandolo nella memoria perché mi piace fin troppo e probabilmente non vedrò mai più questa sconosciuta.
'No, rettifico, non è più una sconosciuta. È Alaska.'
Scrutando la gente che ci cammina davanti, sul marciapiede, scorgo due volti conosciuti. Nei loro completi professionali gli scagnozzi di mia madre sembrano degli imprenditori appena usciti dal lavoro.
Senza via di fuga, mi rassegno e mi alzo da quella panchina per raggiungerli.
Va sempre così: mi riporteranno a casa, mia madre mi picchierà di nuovo per essere scappata, e tutto tornerà come prima.
Lancio un ultimo sguardo ad Alaska, confusa alle mie spalle.
'Tutto come prima. O forse no.'
"Devo andare..." le spiego, indicando gli uomini che si avvicinano.
Lei li guarda scettica, con un espressione concentrata ed adorabile al contempo. Si sofferma un po' troppo con lo sguardo sui loro Rolex dorati, sui completi firmati e sulle scarpe di pelle scura. Poi si alza anche lei. "Beh, anch'io devo andare... è arrivato il mio autobus."
Annuisco guardando il grande mezzo di trasporto alla fermata. È chiaro che apparteniamo a due mondi differenti. Ma questi mondi non li abbiamo decisi noi, perciò ha importanza?
Prima di andare mi sfiora il braccio di proposito, in una stretta leggera ma che ha in me la potenza di farmi accelerare i battiti cardiaci. "Se hai bisogno cercami a questa panchina. Mi troverai."
Capisco che quella sua preoccupazione deriva dai segni che mi ha visto addosso, ed io le strappo quella promessa che so essere di poca importanza.
Nessuno c'è davvero quando hai bisogno.
Mi dà le spalle per correre su quell'autobus e la vedo sparire tra la folla, come se fosse stata solo un'incantesimo e l'effetto fosse scaduto.
"L'inseguimento è finito, ragazzina?" domanda uno degli uomini imponenti, raggiungendomi. Io lo guardo dal basso, con un ghigno sulle labbra.
"Per pietà. Ed ho vinto anche stavolta." lo supero dandogli una pacca sulla schiena. Il rapporto con loro è diverso da quello che non ho con le domestiche. Sono loro a dovermi correre dietro, ogni volta, inevitabilmente la prendono sul ridere. "Se non riuscite a stare dietro ad una sedicenne dovreste rivedere il vostro allenamento."
"Stronzetta.." commenta l'altro camminandomi davanti mentre li seguo.
In realtà non ho vinto un bel niente.
Posso scappare quanto voglio, correre fino a bruciarmi i polmoni e a consumarmi le suole, tanto tornerò sempre tra quelle mura. Ma ciò non significa che smetterò di provarci.
'Un giorno forse vincerò sul serio.'

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