Solo con la colpa

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Avresti fallito, Nearco

Ognuno è destinato a fallire; non è questione di se avverrà, ma di quando ciò verrà a compimento. Un'attesa che non concede tregua, un'ombra che ti persegue fin quando, al giungere del momento prescelto, ti avvolge nelle sue tenebre. Cosa è un uomo, se non ciò che è sopravvissuto ai suoi errori, se non ciò che è stato abbastanza forte per mantenersi vivo, nonostante i fallimenti? 

E tu, del corso naturale delle cose, non potevi essere un eccezione. 

Lo sai, non è per questo che struggi mente e membra; se ti riduci al pianto, è perché di te altro non è rimasto che la lacrima che solca la tua guancia, che la palpebra stanca che non osserva più ciò che la circonda. Vivi della speranza, ti nutre quel desiderio della redenzione, che anche se otterrai mai davvero ti concederai; ciò che cerchi non è il suo perdono, ma quello "scusa" che mai avrai il coraggio di pronunciare a te stesso. Perché ciò che rende il tuo mondo nero, non è il tuo errore, ma la tua concezione di esso. Sei cieco, o ancor meglio, ti imponi di non riconoscere ciò che sta accadendo per l'affetto che a lui ti lega; credi di essere l'artefice di ogni cosa, solo perché non accetti che anche lui possa crollare. Che anche lui, il tuo emblema della perfezione, possa macchiare la sua luce con le tenebre, per sua sola colpa. 

Ascolta il suo silenzio, Nearco. 

I suoi respiri, una melodia sempre più malinconica e flebile in quel palazzo vuoto, sono sempre più umani.

Le sue mani si muovevano diligentemente, disfacendo e componendo pesanti nodi, mentre le sue labbra dettavano ordini ai suoi sottoposti. Il caldo afoso di Babilonia si abbatteva nei loro corpi, contorcendo le loro espressioni in smorfie frustrate, in un lamento che nessuno osava pronunciare, ma che sapevano accomunare ognuno di essi. Abituati al sopportare i peggiori sforzi, quando non sapevano se parlare, tacevano; nel loro silenzio, speravano potesse venire soppressa quella fatica che appesantiva i loro muscoli, e stancava la loro mente.

Nearco, invece, era grato di dover sostenere quel dolore. Era il suo unico sollievo; tramite quella sofferenza, smorzava la voce che perseguitava la sua ragione. Le parole che ripeteva sembravano venire incise a fuoco nel suo animo, come sulla pietra uno scalpello; fallimento, colpe, errori. Non poteva avere ragione, ma anche se la avesse avuta, nulla sarebbe cambiato; lui aveva mandato quella lettera, lui aveva indotto tutto alla rovina, su di lui ricadeva sempre ogni cosa, ancora e ancora. Ovunque si voltasse, nulla percepiva se non il peso che gravava nella sua coscienza. 

Perché non ti perdoni, Nearco? Ci sono cose che non sai.

Il senso di colpevolezza divorava il suo animo tanto quanto il sole ardeva nella sua pelle, impediva il respiro nella sua gola tanto quanto l'aria soffocante di quella maledetta città. Dall'incontro con il sacerdote, la sera precedente, ricordava ben poco; quelle poche rimaste erano memorie confuse, mescolate nella sua incertezza, distorte dal suo tormento. 

Come un'opera, pitturata di fresco, abbandonata alla forza della pioggia battente; viene consumata dalle gocce di colore che scivolavano verso il suolo, andando a perdere lentamente la sua originale vivacità, la sua bellezza, la sua identità. Così, lui percepiva quei momenti: dei ricordi, che sebbene così recenti, avevano già perso ogni tonalità e ogni sensatezza. 

L'unico sentimento che riaffiorava vividamente, era il dolore. E non era scemato, neanche un po'.

Per gli dèi, se soffriva. Li maledisse, persino quando all'alba si rese conto di aver aperto gli occhi; era forse ciò che meritava, vivere un altro giorno, o solo ciò che gli era dovuto per rigore di cose? Solo dopo, si rese conto che avevano ragione. Sarebbe stata benedizione forse persino grande quella di sottrarlo a quell'esistenza. 

Il tramonto di un dioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora