Il vuoto ha una fine?
La morte, o la vita. Ogni uomo, anche se crollato nel vuoto e annientato nel suo animo, persiste nella sua umanità. Non può sfuggire dalla condanna che incombe nel suo capo; non può evitare di morire.
Dall'inizio dei tempi, la morte non ascolta. Non sente le preghiere sussurrate tra i singhiozzi di un soldato, riverso nel terreno tra il suo sangue sgorgante, che lentamente trascina via con sé anche il suo ultimo respiro. Non ascolta le speranze e i sogni che accarezzano il corpicino di un bambino, al quale tronca la vita con la stessa fermezza che in una creatura tanto ingenua, esiste solo nel desiderare di poter diventare un giorno grande. Non ascolta il pianto di una madre, accasciata nel figlio morente, i cui lamenti squarciano il cielo e rendono persino un giorno di sole la notte più buia della sua esistenza. Così, come non ascolta con maggior pietà l'uomo che si presenzia con oro al suo collo e argento nei suoi polsi, segni della bellezza materiale con cui era stata arricchita la sua vita. Perché la morte sa che da ogni cosa sta per spogliarlo, dal gioiello più brillante che corona il suo capo fino all'ultimo residuo di umanità che ancora circola nelle sue membra spente. Sa, che sta per renderlo una delle tante anime che presidiano l'oltretomba, ricadute nel vuoto da cui erano state sottratte, da cui non ci sarà metallo o titolo che potrà differenziarlo dalle altre. Sa, che diverrà un'ombra. Una di quelle che, quando la tenebra viene spezzata dal flebile bagliore di una fiaccola, implora pietà ai vivi, per essere liberata dalla sua condanna all'oscurità.
Dall'inizio dei tempi, la morte non vede. Non vede le lacrime solcare le guance di un'amante che, dopo aver ricevuto con il sorriso dei fiori resi rigogliosi d'amore nella sua giovinezza, dona il suo ultimo mazzolino ad una bara gelida, con il volto distorto dal dolore. Non vede due mani sfiorarsi, stringersi l'una all'altra con tenero affetto, ammirando il cielo notturno. Perché sa che essi, inconsapevoli che quel calore sarebbe stato presto annullato dall'avvenire del freddo vento della morte, ben presto avrebbero raggiunto quelle stelle che ora osservavano; e su quella terra avrebbero giaciuto non solo i loro corpi, ma nell'oblio sarebbero crollati anche i loro sentimenti. Non vede lo sguardo di supplica rivolto da un guerriero verso gli dèi, attraversato dalle lacrime fuse con il suo sangue, mentre le ferite che costellano le sue membra stremate lentamente lo allontanano sempre di più dalla vita. Perché la morte sa, che neanche le divinità possono infierire.
Un solo dio ci provò; fu colui che portava il nome di Asclepio, concepito da Apollo e la bella Coronide. La madre, quando ancora lo portava in grembo, tradì il dio con un altro giovane, Ischi, attirando su di lei la collera non solo di Apollo, ma anche della gemella Artemide, che con le sue frecce la uccise. Impietosito, il dio splendente decise di risparmiare quantomeno il futuro nascituro, spoglio di qualsiasi colpa di cui si era macchiata l'impura madre. Dalla pira in cui il suo corpo ardeva, ormai privo di vita, Hermes riuscì a risparmiare Asclepio dalle fiamme. Così esso crebbe, imparando l'arte medica dal padre e dal centauro Chirone, ricevendo persino due fiale di sangue dalla dea Atena, appartenenti alla Gorgone Medusa: quella proveniente dal lato sinistro poteva resuscitare i morti, l'altra induceva a morte istantanea. Asclepio donò la vita, una seconda volta, a diversi uomini: Licurgo, Capaneo e Tindareo, esso lì resuscitò dagli inferi, per merito delle sue sopraffini abilità mediche. Ma ciò, non poteva accadere. Non in un mondo dove ogni uomo è destinato a vivere e a morire, dove l'equilibrio di questo ciclo continuo è necessario, ed infrangibile; un'anima morta è per sorte appartenente agli inferi, e la luce del sole altro non può farle che carbonizzarla, come un'ombra si spegne all'accendersi di una fiamma. In quanto tale, Asclepio venne punito. Venne ucciso. Gli fu sottratto il respiro, colpito dalla folgore di Zeus. Il suo tentativo di salvare degli uomini dalla sorte inesorabile, quello di sconfiggere la morte, si era ritorto contro di lui; lo aveva trascinato, anche lui, nel baratro della morte. Suo padre, Apollo, accecato dall'ira lo vendicò, massacrando i giganti che avevano forgiato la folgore del re degli dèi; portavano per nome Bronte, Sterope e Arge. E questo, sebbene quasi costò al giovane dio il Tartaro, garantì al figlio un posto lassù, nel cielo.
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Il tramonto di un dio
Historical FictionBabilonia, 323 a.C. Il palazzo reale era silenzioso. Erano perdute le discussioni lungo i corridoi illuminati dalle torce, perdute le risate che risuonavano nelle ampie sale, perduti sembravano essere persino i respiri, nella morsa indomabile della...