4.1

66 6 0
                                    

                                              Colin

Passato

Il neon lampeggiante del Vojage, l'unico pub aperto ventiquattro ore su ventiquattro nel raggio di dieci chilometri da Leavenworth, illuminava la strada deserta, coperta dalla neve, mentre osservavo le persone camminare sotto il freddo di metà dicembre.
Da dentro il bar, ingoiavo alcuni bicchieri di vodka Lemon come se non ci fosse un domani.
Il sapore bruciante dell'alcol mi faceva impazzire, scendeva in gola, ogni sorso era come una lama di fuoco che cercava di scacciare il dolore dentro di me. Per un breve istante, ogni volta che l'alcol raggiungeva il mio cervello, riuscivo a dimenticare tutto, a lasciare i pensieri fuori da quella porta. Dopo il nono, o forse il decimo bicchiere, la mia testa cominciò a girare. I suoni intorno a me diventarono ovattati, le voci delle poche persone presenti erano lontane, quasi irreali, come se provenissero da un altro mondo. Questa sera non avevo pianificato di bere, ma non potei resistere, non dopo aver ricevuto quel messaggio da mia madre.

Col, non peggiorare la tua situazione, torna a casa, ti prego...

Dopo aver finito l'ultimo bicchiere, mi alzai dal bancone barcollando, le gambe sembravano di gomma, ogni passo era un'impresa.

«Devo andare.», mormorai, rivolgendomi al barista che mi osservava con preoccupazione.

«Non puoi guidare in questo stato.», cercò di fermarmi l'uomo, la sua voce un eco distante. Scossi la testa, ridendo amaramente.

«Sto benissimo.», risposi, ma sapevo che era una bugia.

Uscii dal bar, l'aria fresca della notte mi colpì in faccia come uno schiaffo, ma non fu sufficiente a schiarirmi le idee. La mia moto, una vecchia due ruote nera, mi aspettava parcheggiata sul marciapiede, la sua sagoma scura contro il pallido chiarore dei lampioni. Le chiavi tintinnarono tra le mie dita tremanti mentre cercavo di infilarle nella serratura. Sembravano non rispondere ai comandi, ma dopo vari tentativi, il motore ruggì sotto di me, un suono familiare che avrebbe dovuto confortarmi, ma che quella notte risuonava minaccioso. Partii a tutta velocità, sentendo la potenza del motore vibrare sotto di me. La strada davanti sembrava ondulare, le luci dei lampioni si mescolavano in un unico flusso continuo di bagliori. Ogni cosa si fondeva in un caleidoscopio di luci e ombre, la realtà stessa sembrava liquida. La velocità aumentava, il vento mi sferzava il viso come aghi di ghiaccio, ma continuavo a spingere, sentendo l'adrenalina mescolarsi all'alcol nel mio sangue, una miscela esplosiva che mi faceva sentire invincibile. Non vidi il camion fino all'ultimo momento. Era fermo al centro della strada, le luci di emergenza lampeggiavano come occhi rossi nella notte, ma per me erano solo un bagliore confuso nella mia visione offuscata. Il mio cuore balzò in gola, cercai di frenare, ma le ruote stridettero sull'asfalto, un urlo disperato che riempì la notte. Le mani scivolarono sui freni, sentii il panico avvolgermi, ma era troppo tardi. L'impatto fu violento, un'esplosione di dolore che mi travolse completamente. Il mio corpo venne scagliato in aria, un volo che sembrò eterno e al tempo stesso durò un attimo. Sentii l'aria fischiare nelle orecchie, il mondo roteare intorno a me in un vortice di luci e ombre. Poi avvenne il colpo, il dolore esplose in ogni parte del mio corpo, un dolore così intenso, da togliermi il respiro. Il buio mi avvolse, un'oscurità densa e totale, mentre il suono della mia moto morente svanì nella notte. L'ultimo pensiero, confuso e frammentato, fu di rimpianto, un eco lontano di ciò che avevo perso in quella folle corsa verso casa. Non so quanto tempo passò, prima che arrivai in ospedale. So solo che non riuscì ad aprire gli occhi. Sentii delle voci intorno a me, alcune familiari, altre no. Mi parlarono, mi raccontarono cosa fosse successo e dissero che ero in coma.
Non riuscì a muovermi, a rispondere, ma li sentivo. Ogni tanto percepivo una mano che stringeva la mia, qualcuno che mi accarezzava il viso. Ero intrappolato in un limbo tra la vita e la morte, senza poter fare nulla per uscirne. La mia mente vagò, si perse nei ricordi e nel rimpianto di non essere tornato a casa a festeggiare il mio compleanno con la mia famiglia. Rividi il volto del barista, l'espressione preoccupata sul suo viso. Le luci dei lampioni, il bagliore confuso del camion. E sentii, ancora e ancora, il dolore dell'impatto, l'oscurità che mi avvolse e poi il vuoto.

SOULMATE (Quando le luci si accendono)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora