21. K-boy - Karter

5 2 2
                                    


𝄞 Tatto - Loreen

Presi tra i denti l'estremità della matita, pensando a cosa stessi sbagliando. Volevo ottenere un posto tra i quindici musicisti che sarebbero andati in tour in Europa, ma non sarebbe stato facile, soprattutto con il blocco che mi ritrovavo a vivere. Non riuscivo a comporre e più ci provavo, più mi convincevo di aver creato una vera schifezza. Cancellai l'ennesimo appunto sul pentagramma e raccolsi le gambe al petto, dondolandomi sulla sedia con la testa all'indietro, alla ricerca di ispirazione. Mia madre doveva rimanere fuori da quel quadro, nonostante fosse la musa dei miei pezzi migliori.
A testa in giù scorsi una foto: la mia prima foto con Parker e sorrisi. Lui sarebbe potuto essere il mio cavallo di battaglia e, invece, tirava fuori melodie melense e ballate romantiche che non rispecchiavano per niente il mio stile artistico. Sorrisi e mi alzai, afferrando la foto. La puntina cadde giù ed io ebbi appena il tempo di raccoglierla, prima che il bussare insistente alla porta mi costringesse ad aprire.
«Chiunque tu sia, hai meno di dieci secondi: sto componendo», dissi in fretta.
Parker si poggiò allo stipite con un sorriso scandaloso e attraente. «L'avviso vale anche per me?»
«Tecnicamente sì,» bofonchiai, «praticamente no.» Lo tirai dentro dalla manica del trench e lo baciai con foga. Non avevamo avuto molto tempo da passare insieme, nell'ultimo periodo. Con le audizioni alle porte, le lezioni si erano intensificate e le ore di studio fuori classe anche di più.
«Calmati, K-boy. Non stavi componendo?» ridacchiò lui, posando un sacchetto di carta sulla mia scrivania piena di appunti, carta straccia, matite colorate e penne ultrafighe che non usavo mai ma che erano troppo belle per essere messe in un cassetto.
Ruotai gli occhi, scuotendo il capo. «Mi chiamerai così ancora per molto?»
«Non ti piace?» si finse dispiaciuto e io avrei voluto prendergli quella faccia a schiaffi. E poi a baci.
«Soffri di perdita di memoria? Ti ho già ribadito che non mi fa impazzire k-boy come nomignolo. È troppo generalizzato; qualsiasi altro ragazzo con queste sembianze potrebbe essere chiamato così.»
«Ma nessuno ha i tuoi bellissimi occhi a mandorla, nei dintorni; e io chiamo solo te in questo modo. Sei il mio k-boy», ammiccò, inumidendosi le labbra.
La mia bocca si allargò automaticamente in un sorriso. Non potevo togliergli questo piacere e nemmeno volevo. I suoi occhi avevano un non so che di luminoso, mentre pronunciava quel nomignolo discutibile; mi sapeva molto da ballerino hot, ma non lo avrei mai confessato a Parker. E poi, il fatto che avesse usato l'aggettivo possessivo per definire la mia appartenenza, aveva vinto tutto. «D'accordo, d'accordo», mi arresi accarezzandogli un braccio.
«Stavi componendo una canzone per me?» chiese dopo qualche istante.
«No. Cosa te lo fa pensare?»
Indicò la foto che avevo ancora in una mano e mise su un ghigno malizioso.
«Questa fa semplicemente parte della mia pausa», spiegai rimettendola al suo posto, nella parete sopra al letto. «Non riesco a comporre», confessai buttandomi sulla sedia con le mani tra i capelli. Il mio sguardo fisso su tutti gli spartiti che avevo sprecato.
Parker li prese e li consultò uno per uno, con l'aria attenta di un professore che deve correggere i compiti in classe. Il suo trench color cammello, che non si era ancora tolto dalle spalle, e la camicia azzurra e perfettamente stirata lo rendevano una visione meravigliosa. Era sexy da morire.
«Questo non è male», pronunciò consegnandomi uno spartito.
Lo consultai rapidamente, strizzando gli occhi. «Forse va bene per una festicciola in un pub di bassa lega; sempre ammesso che nei pub sappiano cos'è uno stradivari», bofonchiai esasperato.
Parker voltò la seduta mobile della mia sedia e si inginocchiò davanti a me, prendendomi le mani. «Vedrai che riuscirai a passare le selezioni. Sei il musicista migliore della Juilliard. Non possono fare fuori la gallina dalle uova d'oro.»
«Non so se essere orgoglioso del fatto che hai un'alta stima di me, o offeso perché mi hai definito una gallina», feci per pensarci, ma non riuscii a trattenere la risata e alla fine mi concessi di abbracciarlo così stretto da capitombolare a terra. Mi venne in mente Joanne e i suoi abbracci tempestosi e risi ancora di più, dopotutto non eravamo tanto diversi io e lei. «Per essere un ballerino il tuo equilibrio fa schifo!» lo presi in giro.
«Non è colpa mia se una gallina mi si è tuffata addosso con la forza di un bisonte», mi rispose per le rime, ma sempre con gli occhi sorridenti. Amavo quei momenti solo nostri dove lui si mostrava per quel che era, senza filtri.
Mi sistemai a cavalcioni su di lui fingendo un'aria minacciosa. «Davvero mi hai definito gallina e bisonte nella stessa frase?»
Parker annuì, per nulla turbato. «Davvero.»
«Sai che dovrei punirti per questo?» lo stuzzicai, mordendomi il labbroinferiore.
Parker sollevò un poco le spalle, tenendo il peso con i gomiti. «Merito senz'altro la tua punizione», soffiò a pochi passi dalle mie labbra.
Guardai per un momento la scrivania e gli spartiti che, in ogni caso, non avrei completato e poi rivolsi la mia completa attenzione a Parker. «Tua madre non è stanca di ritrovarsi le tue costose camicie straziate come pagliaccetti da quattro soldi?» mormorai, iniziando a sbottonare i bottoni. Uno per uno. Lentamente.
Lui si mise comodo, incrociando le braccia dietro la testa. «Mia madre è ancora convinta che K.J.H sia una ragazza e, da come torno a casa, credo abbia iniziato a pensare a una di quelle ragazze.»
«Una spogliarellista?»
«Peggio. Ha iniziato a documentarsi su malattie sessualmente trasmissibili. Pensa che vado a letto con una donna di strada; e pensa anche che io ne sia terribilmenteinnamorato, il che si riduce a delle avvisaglie del tipo: non è sempre amore, anche se lo crediamo tale.»
Conclusi con i bottoni e, grazie al suo aiuto, riuscii a sfilargli trench e camicia in un solo colpo, godendomi la vista di quei pettorali statuari. Avrei voluto avere una polaroid per intrappolare la bellezza del mio ragazzo in quel momento e, invece, dovetti limitarmi a prendere il telefono che, seppur avendo una buona fotocamera, non possedeva l'antico sapore di una foto appena stampata. «Quindi, sei terribilmente innamorato di questa ragazzaccia?» chiesi, scattando più foto possibili. Lui scoppiò a ridere e io continuai a premere il dito sul cellulare, immortalando la genuinità di quell'istante. Mi chinai verso di lui e gli baciai il sorriso, tenendo il telefono ben posizionato con la telecamera frontale per non perdermi la spontaneità del gesto con un repeat.
«Potrei esserlo, sì. Tuttavia, forse dovrei seguire i consigli di mia madre quando tenta di persuadermi dal vederti.»
«Chissà come reagirebbe al vero K.J.H.»
Parker si incupì e tutto il suo corpo divenne rigido.
«Non ti sto chiedendo di dirglielo, non adesso», lo rassicurai, rimettendo lo smartphone sulla scrivania. «Anche se ammetto che mi piacerebbe poter postare quelle foto di te, sotto di me», ammiccai, lasciando una scia umida di baci sul suo petto.
«Vuoi far credere al mondo che mi possiedi?»
Sollevai il mento, giusto per riuscire a guardarlo in faccia: «Io ti possiedo, non mi serve farlo credere ad altri.»
Parker smise di ridere e cercò la mia mano, intrecciando le dita con le mie.
Lo baciai a occhi aperti, annegando nell'azzurro puro delle sue iridi, e mentre io perdevo la cognizione di tutto quello che avevo intorno ritrovandomi a vedere soltanto lui, lui mi apriva il suo mondo e il suo cuore, supplicandomi in una muta richiesta di non perdere mai quella chiave che solo io avevo il potere di afferrare.

Firts Girly LoveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora