Cap.1- Il risveglio

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Dafne Warrior

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Dafne Warrior

Non mi ricordo bene quando questo inferno è cominciato, ma so per certo che non finirà a breve. Sono rinchiusa dentro queste mura da ben 32 giorni, 22 ore e 24 minuti, e so per certo che non ne uscirò in poco tempo. 

Sento un rumore di serratura, un vociferare di sottofondo. Mi raggomitolo su me stessa, sperando che non mi vedano mentre mi incollo al muro di fondo. La puzza qui è raggelante, ma ormai il tanfo di topi è passato in secondo piano rispetto all'odore del sudore. Chissà quante persone sono state rinchiuse qua dentro, contribuendo a far diventare questa cella un luogo disumano e invivibile. La luce di una torcia mi ferisce gli occhi, ma trattengo il respiro, sperando che questo possa bastare.
É cosí da un mese.La mattina vengono in due. Muscolosi, maschere sui volti e sguardi cupi. Mi afferrano le braccia e mi trascinano fuori dalla gattabuia, non una parola, non mi guardano neanche. Poi, mi ritrovo in una stanza illuminata a led, sdraiata sopra un lettino bianco e impersonale. Una luce ancora più forte, puntata sulla mia iride, mi infastidisce, e mentre strizzo gli occhi, sento un pizzicore sul braccio sinistro. Un risucchio, e poi sono di nuovo nella celletta.

Non so a chi o perchè serva il mio sangue, ma in tutto questo tempo me ne avranno tolto almeno 2 litri, se non di più. Le quantità di cibo qua sono davvero deprimenti, un pezzo di pane stantio e un misero bicchiere d'acqua, che arrivano una volta al giorno, circa dopo 3 ore dalla mia visita mattutina. E questi sono gli unici due momenti delle mie giornate davvero degni di nota, perchè per il resto ci siamo io e questi 3 muri ammuffiti, che ci studiamo a vicenda. 

Non ricordo niente del prima e non so nulla del dopo. Non mi ricordo come mi chiamo, perchè sono qui, dove mi trovo. So solo che, un giorno, mi sono ritrovata qui dentro, le mani legate, al buio. E da lì, è cominciata la mia routine giornaliera.

I primi giorni, confusa com'ero, avevo anche provato a comunicare con le guardie o i dottori, ma nessuno mi capiva. Parlano un'altra lingua che non conosco, o forse nemmeno me la ricordo più. So solo, per certo, due cose: la prima, che sono importante per loro. Non so perchè o chi siano loro, ma non sono mai stata minacciata di morte ( da quanto capisco dai gesti delle guardie) e nemmeno testata come un ratto da laboratorio. La seconda, che sono una prigioniera di un altro paese. E che non mi lasceranno mai andare via.

Le gambe indolenzite cominciano a farsi sentire, ma stringo i denti. Non voglio essere di nuovo esaminata, voglio delle risposte. Così, quando i due omoni arrivano e aprono la serratura, sfrutto l'effetto sorpresa e balzo dietro il primo, assestandogli un calcio nelle parti basse. Mentre si piega in due, gemendo e imprecando nella sua lingua, l'altro cerca di afferrarmi per le braccia e immobilizzarmi, ma sono più rapida di lui: con una mezza giravolta, gli assesto un pugno nel volto mascherato e, prima che lui possa reagire, corro disperata verso il corridoio poco illuminato.

Ho il respiro accelerato e i battiti del cuore a mille, ma sorrido. Almeno ho ampliato il mio panorama quotidiano, penso, mentre trattengo una risata liberatoria. Mentre corro, non mi guardo indietro, pur sapendo di avere alla calcagna le due guardie, ma mi concentro su quello che vedo. Una porta, chiusa. Delle luci a neon sempre più frequenti sul soffitto, che illuminano un pavimento lurido e una colonia di ragni enormi. Altre celle, poi una luce forte in fondo. Mi lancio verso di essa, non penso di essere mai stata così veloce in vita mia, o perlomeno in quella che mi ricordo, ma vado a sbattere violentemente. 

The last piece of youDove le storie prendono vita. Scoprilo ora