Rimasi per un attimo lì, immobile sul divano, assaporando l'atmosfera di quel momento. Le risate, le battute, l'intimità che avevamo condiviso poco prima... tutto sembrava così perfetto, così autentico. Mi sentivo parte di qualcosa di speciale, una piccola ma essenziale tessera in questo puzzle di talenti e personalità diverse.
Brian si fermò sulla soglia, guardandomi ancora una volta. Il suo sguardo era pieno di dolcezza, misto a quella scintilla di complicità che sembrava essere solo nostra. "Non fare troppo tardi," mi disse con un sorriso. Gli risposi con un cenno e un sorriso stanco ma soddisfatto.
Appena uscirono tutti, la stanza cadde in un silenzio ovattato, rotto solo dal ronzio degli amplificatori ancora accesi e dal leggero fruscio delle tende mosse dalla brezza notturna. Mi alzai lentamente, sentendo ogni muscolo rilassarsi dopo quella lunga giornata. Mi avvicinai alla finestra dello studio e guardai fuori, perdendomi per un attimo nel cielo scuro e pieno di stelle.
Pensai a quanto fossi fortunata. Non solo avevo trovato l'amore in Brian, ma mi sentivo parte di qualcosa di più grande: un gruppo di persone straordinarie, ognuna con la propria eccentricità e il proprio talento, unite dall'amore per la musica e dalla voglia di lasciare un segno. Era qualcosa che andava oltre le semplici amicizie o collaborazioni lavorative. Era un legame fatto di risate, fatica e passione condivisa.
Mi passai una mano tra i capelli, ripensando alle parole di John. "Non sottovalutarti, Violet." Quella frase mi risuonava ancora nelle orecchie. E se fosse stato vero? Forse non ero solo una spettatrice nella vita di Brian, forse avevo davvero un ruolo importante, anche se meno visibile.Quando uscii dalla stanza di registrazione, il caos esplose letteralmente davanti ai miei occhi. Il salotto era una scena surreale: Roger era in piedi su un tavolo, urlando qualcosa di incomprensibile con una bottiglia di whisky in mano, mentre Freddie correva in cerchio attorno al divano, ridendo come un pazzo. John era sdraiato a terra, completamente scomposto, e rideva con il viso nascosto tra le mani. Brian, invece, era seduto in disparte con il suo solito sguardo compiaciuto, osservando la follia prendere il controllo.
Non potei fare a meno di fermarmi a guardare. La bellezza di quel momento era travolgente. Quei ragazzi, che poche ore prima erano concentrati su note e accordi, ora erano diventati creature libere e selvagge, trascinate dall'euforia del successo e dall'adrenalina che scorreva nelle vene. Il lavoro della giornata aveva superato ogni aspettativa e, in qualche modo, sapevamo tutti di aver creato qualcosa di straordinario.
Notai la macchina fotografica di Brian abbandonata sul tavolino, e un'idea mi balenò in testa. Senza che nessuno mi vedesse, la presi e inquadrai la scena. Scattai una foto, immortalandoli nel loro stato più puro: distorti dal divertimento, persi nel caos, ma incredibilmente belli. Nessuno si rese conto di nulla, troppo occupati a vivere quel momento di pura anarchia.
Poi Freddie mi vide e urlò: "Violet! Vieni qui! Non c'è festa senza di te!" Il suo tono era quasi frenetico, e prima che potessi rispondere, sentii le mani di Roger afferrarmi per la vita e tirarmi verso di loro.
"Non pensare di scappare, groupie!" gridò Roger, sghignazzando come un maniaco.
Mi ritrovai circondata da bicchieri e bottiglie. Brian mi mise in mano un drink che sembrava più una pozione alchemica che qualcosa da bere. Senza pensarci troppo, lo buttai giù tutto d'un fiato. La sensazione di calore mi esplose dentro, e il mondo intorno a me cominciò a vibrare. Tutto sembrava accelerare.Le risate divennero grida di gioia. Freddie saltò sul divano, tirandosi giù i pantaloni e facendo una posa teatrale da rockstar nuda. Roger, non da meno, decise di staccare una tenda e indossarla come mantello. John rotolava per terra, completamente ubriaco, mentre Brian mi afferrava per la mano e mi trascinava fuori dalla casa.
"Fuori! Andiamo fuori!" urlò, e senza alcun motivo apparente, iniziammo a correre nei campi intorno alla fattoria. Gli altri ci seguirono, gridando come pazzi. Sembrava una fuga disperata, ma in realtà era solo la voglia di sfondare ogni limite. La luna alta nel cielo illuminava il nostro percorso, e tutto intorno a noi era un misto di risate isteriche, urla e suoni confusi.
Arrivati al vecchio fienile, Roger si arrampicò fino al tetto, gridando come un dannato. Freddie, sempre pronto a esagerare, decise di unirsi a lui, lanciando bottiglie vuote contro il cielo, mentre John cercava di accendere un falò con ciò che restava di un vecchio recinto.
Brian mi tirò contro di sé e, ridendo come non lo avevo mai visto ridere, mi baciò con una passione selvaggia, mentre tutto intorno a noi sembrava esplodere. Il rumore delle bottiglie infrante, il crepitio del fuoco che John finalmente riuscì ad accendere, e l'eco delle risate che si perdevano nei campi rendevano la scena surreale.
La notte continuò a rotolare fuori controllo. Ci arrampicammo su macchine, saltammo nei fiumi, corremmo attraverso i boschi come animali notturni senza meta. Eravamo senza freni, senza regole. Roger, completamente fuori di sé, si spogliò del tutto e iniziò a correre nudo per i campi, urlando loro canzoni a squarciagola. Freddie lo seguì poco dopo, aggiungendo versi di Shakespeare per rendere la scena ancora più assurda.
A un certo punto, qualcuno trovò delle vernici spray nel capanno degli attrezzi e iniziammo a dipingerci addosso, lasciando tracce colorate sui nostri corpi e sui muri della fattoria. Brian disegnò qualcosa sulla mia schiena, ridendo come un ragazzino, mentre io gli restituivo il favore scrivendo il mio nome sul suo petto con un pennarello nero.
Quando finalmente tornammo alla fattoria, era ormai l'alba. Stanchi, distrutti, ma ancora ridendo, ci accasciammo in posti completamente casuali. John si addormentò direttamente nel fienile, avvolto in una coperta che aveva trovato chissà dove. Freddie si sdraiò su una vecchia sedia a dondolo, ancora con una bottiglia in mano. Roger era sparito, probabilmente crollato da qualche parte nel campo, mentre Brian e io ci accasciammo sul divano, esausti, con i corpi ancora coperti di colori e pennarelli.
***
La mattina ci accolse con il sole che penetrava attraverso le finestre sporche della fattoria. Mi svegliai con un mal di testa infernale e il sapore di whisky ancora in bocca. Attorno a me, il caos era evidente: bottiglie rotte ovunque, vestiti sparsi per tutta la stanza, e tracce di vernice spray sui muri.
Freddie fu il primo a fare un verso di sofferenza, mettendosi a sedere sulla sedia a dondolo, con l'espressione di chi si era appena svegliato dall'inferno. "Mai più," mormorò, massaggiandosi le tempie.
Roger comparve dalla porta, ancora nudo, ma con una bottiglia vuota in mano. "Cazzo..."
Mi voltai leggermente evitando di vedere quella scena, Roger prese la tenda della sera precedente a terra e si coprì.
Brian, con il viso dipinto e un sorriso storto, mi guardò e scosse la testa.
E mentre guardavo quella scena di pura devastazione, non potei fare altro che sorridere. Sì, quella notte sarebbe rimasta impressa nelle nostre menti come la più folle e indimenticabile serata in campagna della nostra vita.
***
Il giorno dopo quella notte folle, il pomeriggio ci trovò ancora immersi nella confusione della fattoria, cercando di raccogliere i pezzi della nostra dignità e, soprattutto, di terminare le rifiniture del pezzo su cui avevamo lavorato per giorni. Freddie si sedette al pianoforte con gli occhi gonfi e l'espressione di chi stava pagando caro il prezzo di tutte le follie della notte precedente. Roger, finalmente rivestito, tamburellava distrattamente sulla batteria con un'aria annoiata, mentre John tentava di accordare il basso senza particolare convinzione. Io e Brian ci scambiavamo occhiate divertite ogni tanto, incapaci di prendere sul serio il caos che ci circondava. Con i capelli ancora incrostati di vernice e qualche segno di pennarello indelebile sui vestiti, sembravamo più una banda di sbandati.
La luce del tardo pomeriggio filtrava dalle finestre dello studio, illuminando la scena di disordine creativo in cui ci trovavamo. Freddie, successivamente, si era buttato sul divano accanto a me, allargando le braccia come se fosse il protagonista di un dramma shakespeariano.
"Dovremmo smettere di torturarci," sbottò infine, guardando verso il soffitto con un'aria esasperata.
"Siamo qui da ore e non siamo neanche riusciti a decidere come chiamare questo maledetto pezzo."
"Freddie, non siamo qui per parlare di nomi," rispose Brian, piegato sulla sua chitarra e armeggiando con le corde come se potessero rivelargli una verità nascosta. "Dobbiamo rifinire gli ultimi arrangiamenti."
"Arrangiamenti, titoli... è la stessa cosa, Brian" esclamò Freddie, lanciando le mani in aria.
"L'anima di una canzone è nel suo nome. E noi non abbiamo neanche un'anima, figurati un titolo."
John fece un piccolo sorriso, apparentemente divertito. "Non è un'anima quella che ci manca, Freddie. È la nostra sanità mentale al momento."
"Freddie, hai voluto inserire quei vocalizzi assurdi ieri, ci siamo fermati solo quando ci stavano sanguinando le orecchie," aggiunsi, cercando di soffocare una risatina. "Dovresti essere soddisfatto di questo."
"Esatto, Violet, dovrei. Ma invece sono qui, sull'orlo della disperazione, perché sento che questo pezzo... questo maledetto pezzo merita un nome degno di un re, un nome che rimanga per sempre."
Roger sospirò rumorosamente. "Allora chiamiamola 'La Marcia Funebre per le Nostre Cellule Celebrali'. Mi sembra appropriato, no?"
"Roger, non essere ridicolo," lo rimproverò Brian, ma c'era un sorriso nei suoi occhi. "Stiamo cercando qualcosa che evochi maestosità, che sia... eclettico."
"Ah, certo, 'eclettico'," sbuffò Roger, scompigliandosi i capelli. "Potremmo chiamarla 'Sinfonia per Idioti Eclettici'."
"Oppure 'La Ballata degli Eclettici Falliti'," aggiunse John con un'aria innocente, scatenando una risata generale.
Freddie si sollevò a sedere di scatto. "C'è una linea sottile tra l'essere ironici e l'essere stupidi, miei cari. E voi la superate sempre con estrema disinvoltura."
Lo osservai, notando quel guizzo nei suoi occhi, quella scintilla di determinazione che di solito appariva solo quando aveva un'idea in testa.
"Allora, cosa ti frulla per la testa, Fred?" dissi.
Freddie mi guardò intensamente per un attimo, poi scosse la testa con una risata breve.
"Stavo solo pensando... magari qualcosa di assurdo, che mescoli più generi, più stili... Un titolo che suoni come... come un'opera barocca decadente."
"Barocca decadente?" ripeté John, sollevando un sopracciglio. "Questo sembra più un nome per un bordello."
"Un bordello!" esclamò Freddie, battendo le mani. "Sì, un nome che evochi qualcosa di... provocatorio!"
"Stai dicendo che dobbiamo chiamarla 'La Canzone del Bordello'?" domandò Roger con un'aria scettica.
"No, idiota," ribatté Freddie con tono esasperato. "Qualcosa che prenda il suo spirito libero, il suo carattere eccessivo e lo racchiuda in una parola. Qualcosa di... bohémien!"
"Bohémien?" ripeté Brian lentamente. "Non è male... ma suona troppo romantico. Ci serve qualcosa che suggerisca grandezza. Che ne dici di 'Bohémien Sinfonia'?"
Freddie aggrottò le sopracciglia, riflettendo. "No, troppo serio. 'Sinfonia' mi sa di Beethoven e di gente che si annoia a morte, tipo te. Pensavo più a... una rapsodia."
Ci fu un momento di silenzio mentre tutti metabolizzavamo il termine.
Poi Roger sorrise, inclinando la testa. "Una rapsodia?"
"Bohemian Rapsody," mormorai piano, assaporando il suono delle parole.
Freddie mi lanciò un'occhiata soddisfatta quasi impazzita.
"Esatto, cazzo. È perfetto. Strano, ma elegante. E, come direbbe qualcuno, magnificamente inutile."
Brian annuì lentamente. "È... stupendo. Ed è anche abbastanza pazzo da funzionare."
"Fatto," concluse Freddie, balzando in piedi. "Il nome è deciso. Ora possiamo continuare a lavorare in pace. Vi dichiarò solennemente miei servitori per completare quest'opera barocca senza tempo."
"Freddie, ti ho mai detto che sei insopportabile?" borbottò Roger, ma c'era un sorriso dietro le sue parole.
"Ogni singolo giorno, caro Roger. Ma è proprio per questo che mi ami."
***
Dopo altre ore passate a sistemare ogni minimo dettaglio della canzone, decidemmo che era finalmente il momento di prendere una pausa. Decidemmo di andare a cena fuori.
Il piccolo ristorante che avevamo scelto si trovava appena fuori dal villaggio, immerso in un paesaggio bucolico che sembrava uscito da un dipinto. Appena entrati, la cameriera ci accolse con uno sguardo sorpreso, probabilmente non abituata a vedere un gruppo tanto eterogeneo e, ammettiamolo, malridotto come il nostro.
"Un tavolo per... quanti siamo?" chiese Roger, guardandosi attorno con aria confusa.
"Cinque, genio," sospirò John. "A meno che tu non stia ancora vedendo doppio."
"Cinque allora" confermò Roger con un sorriso smagliante.
La cameriera ci condusse in un angolo appartato, lontano dagli altri clienti, probabilmente intuendo che non saremmo stati esattamente tranquilli. Ci sedemmo, ognuno crollando sulla propria sedia con un sospiro di sollievo.
"Bene, che si ordina?" chiese Freddie, afferrando il menù e scorrendolo con espressione concentrata. "Qualcosa che non mi faccia sentire come se stessi morendo domani mattina."
"Quindi niente alcol?" chiese Roger sarcastico.
Freddie gli lanciò uno sguardo di sfida. "Sto ancora valutando. Potrei avere bisogno di un drink o due per sopportarti."
"Ecco, ci risiamo," sospirò Brian con un sorriso indulgente.
"Ragazzi, facciamo pace almeno fino a quando non abbiamo mangiato, ok?"
"Mi sembra una proposta equa," disse John con aria saggia.
"Nessuna guerra durante i pasti. Vecchia regola."
"Che saggia regola," concordò Freddie, alzando il menù come fosse un calice. "Allora un brindisi! A Bohemian Rapsody!"
Alzammo i bicchieri d'acqua, ridendo e battendo le mani sul tavolo. La cena si svolse tra battute e ricordi della registrazione.
***
Quella notte, la luce della luna entrava a fiotti dalla finestra della piccola camera da letto, inondando la stanza con una sfumatura argentea. Io e Brian eravamo distesi sul letto, avvolti in lenzuola stropicciate, il respiro ancora un po' affannato dopo il nostro momento d'intimità. Sentivo la sua mano scorrere lungo il mio fianco con tenerezza e una cura. Era una notte speciale, diversa dalle altre, perché sapevamo entrambi che sarebbe stata l'ultima in quel luogo, con l'album che si stava finalmente delineando e ognuno di noi pronto a ritirarsi a casa propria.
"Sei sicura che non sia meglio prolungare il soggiorno?" mormorò Brian con voce bassa, come se avesse paura di spezzare quel momento. Mi girai verso di lui, i nostri volti vicini nel chiarore lunare.
"E continuare a impazzire qui dentro?" sorrisi, lasciando che le dita tracciassero lievemente la linea del suo mento. "No, abbiamo bisogno di una pausa. Ma... sarà strano non averti accanto."
Lui inclinò la testa, i riccioli che gli ricadevano morbidi sulla fronte. "Sarà strano anche per me. Siamo stati così immersi in questo progetto... In un certo senso, è come se stessimo uscendo da un sogno, tornati alla realtà."
Annuii lentamente, afferrando il senso profondo di quelle parole. Il silenzio cadde tra di noi, ma non era pesante. Alla fine, Brian si sporse leggermente e mi baciò la fronte, un gesto carico di dolcezza.
"Questa notte deve essere indimenticabile," sussurrò contro la mia pelle, e il calore della sua voce mi fece rabbrividire. "Perché ognuno se ne tornerà a casa sua..."
Ci baciavamo, ci toccavamo, ci amavamo come se il tempo potesse cristallizzarsi in quell'istante, senza fine, senza un domani.
Più tardi, quando lui si addormentò, con un braccio intorno al mio ventre e il viso sepolto nei miei capelli, restai a guardare il soffitto, le palpebre troppo pesanti per chiudersi ma la mente troppo sveglia per spegnersi. Qualcosa mi agitava dentro, un'energia sottile che mi impediva di rilassarmi. Alla fine, mi alzai lentamente, attenta a non svegliarlo. Indossai la maglietta e le mutande e, muovendomi silenziosamente, uscii dalla stanza.
Attraversai il corridoio fino alla sala comune, illuminata solo dal bagliore tenue delle stelle che trapelava dalle finestre. Sulla tavola, intravidi un pacchetto di sigarette mezzo vuoto, probabilmente dimenticato da Roger.
Presi una sigaretta e me la misi tra le labbra, cercando con le dita l'accendino nel buio. Ma mentre tentavo di accenderla, notai una luce provenire dallo scantinato. Mi immobilizzai. Chi diavolo poteva essere sveglio a quest'ora?
Inizialmente, il cuore cominciò a battermi forte nel petto. Non c'erano segni che qualcuno fosse ancora in piedi, ma la luce non mentiva. Esitai per un attimo, poi afferrai un vecchio bastone di legno appoggiato vicino alla porta, usato probabilmente per sostenere qualche finestra traballante. Non era una mazza, ma avrebbe fatto il suo lavoro se ce ne fosse stato bisogno.
Scesi giù. Io, con il bastone sollevato e l'ombra della sigaretta non accesa ancora pendente dalle labbra. Passai lentamente dall'ultima rampa di scale, il legno che scricchiolava sotto i piedi nudi. L'adrenalina mi pizzicava la pelle, facendomi sentire viva e al tempo stesso vulnerabile.
Mi fermai sul pianerottolo, fissando con gli occhi sbarrati la figura china su una pila di fogli. Freddie.
La mia tensione si sciolse all'istante e abbassai il bastone, lasciandomi andare a un sospiro di sollievo. Lui si voltò, con un'espressione tra il sorpreso e l'innocente.
"Che ci fai qui?" chiesi piano, la voce ancora tremante.
"Ti faccio la stessa domanda," rispose Freddie con quel suo tono scherzoso, seppur stanco. "Pensavo di essere l'unico pazzo a non dormire a quest'ora."
"Non riuscivo a dormire," mormorai, avanzando lentamente e appoggiando il bastone contro la parete. "E tu? Che diavolo stai facendo giù qui? Sembrava che ci fosse un ladro."
"Oh, solo sistemando qualche appunto che mi è venuto in mente. Niente di strano. Vuoi darmi una mano?"
Mi sedetti accanto a Freddie, lasciando che il bastone rotolasse lontano sul pavimento. Ero ancora in maglietta e mutande, ma non mi importava. Con Freddie non c'era mai stato bisogno di filtri. Lui alzò lo sguardo e mi studiò per un istante, poi indicò i fogli sparsi sul tavolo, accennando un sorriso sghembo.
"Riconosci qualcosa?" mi chiese, la voce sottile e quasi divertita.
Mi sporsi in avanti, scrutando le parole incise con la sua calligrafia arzigogolata. Frammenti di frasi, schemi a zig-zag e cerchi disegnati intorno a certi punti. Poi, finalmente, mi accorsi di quelle parole che suonavano familiari. "Gunpowder, gelatine... dynamite with a laser beam," mormorai lentamente, ripetendo le stesse frasi che mi aveva fatto pronunciare qualche giorno prima. "Ma tu... ci stavi davvero lavorando su queste stronzate?"
Lui alzò le spalle, con quel modo tutto suo di enfatizzare ogni gesto.
"Niente è una stronzata, darling." Si alzò dalla sedia, afferrò uno dei fogli e iniziò a declamare con tono melodrammatico: "She keeps her Moët et Chandon / In her pretty cabinet / 'Let them eat cake,' she says, / Just like Marie Antoinette..."
Mi girai verso di lui, sbalordita. "Aspetta, aspetta... ma stai parlando di una persona vera?"
Freddie scoppiò a ridere, un suono caldo e leggermente isterico che rimbombò nel silenzio della stanza.
"Non esattamente, ma..." Fece una pausa e mi lanciò un'occhiata complice.
"Diciamo che mi sono lasciato ispirare da qualcuno."
Alzai un sopracciglio, incrociando le braccia al petto. "E chi sarebbe questo 'qualcuno'? Una regina? Un'aristocratica decadente?"
Freddie si chinò verso di me, gli occhi scintillanti di malizia.
"È qualcuno che conosco molto bene... Una persona complessa, pericolosa, affascinante. Con un fascino letale, che può fare esplodere il mondo e incantarlo nello stesso momento."
Fece una pausa teatrale, poi inclinò leggermente la testa. "Ti ricorda nessuno?"
Mi fermai, confusa per un istante, poi la realizzazione mi colpì. "Io?" chiesi piano, indicandomi incredula.
"Stai parlando di... me?"
Freddie fece un gesto ampio con le mani, come se presentasse il suo capolavoro al mondo.
"Killer Queen, in persona! L'anima ribelle e imprevedibile della nostra piccola comunità. Oh, non fare quella faccia sconvolta"
Ridacchiò piano, tornando a sedersi e accavallando le gambe.
"Volevo scrivere qualcosa di unico, qualcosa che non fosse un banale inno d'amore. E tu... tu sei unica, cara mia. Sei tutto ciò che non si può mettere in una scatola. Sei dinamite, gelatina... e una piccola bomba a orologeria."
Lo fissai, cercando di capire se stesse scherzando. Ma il suo sguardo, nonostante il sorriso ironico, era serio. "Freddie, io non... non sono niente di speciale."
Lui alzò un dito, come a zittirmi. "Oh, smettila. Non sei speciale? Non dire idiozie. Sei... sei misteriosa e inafferrabile. Come questo personaggio."
Indirizzò di nuovo lo sguardo ai fogli. "'Gunpowder, gelatine, dynamite with a laser beam / Guaranteed to blow your mind'... Capisci? Sei così imprevedibile che non si sa mai cosa aspettarsi da te."
"E questo ti ispira a scrivere una canzone?" chiesi piano, il cuore che batteva forte per quella strana e improvvisa attenzione.
Lui mi scrutò, abbassando un po' la voce. "Non scrivo canzoni solo per le persone che amo. Scrivo per quelle che mi lasciano un segno. Quelle che mi sfidano. E tu, tesoro, mi sfidi. Anche quando non te ne accorgi."
Rimasi senza parole, incapace di replicare. L'avevo sempre visto come l'artista geniale, capace di prendere il caos e plasmarlo in arte. Non avrei mai pensato che vedesse in me una qualche fonte di ispirazione. Mi agitai sulla sedia, poi mi alzai di scatto.
"Mi serve una sigaretta."
Freddie sollevò un sopracciglio, sorpreso.
"Non fumo, di solito. Ma... ora sì."
Presi il pacchetto sul tavolo, facendolo roteare tra le mani. Poi estrassi una sigaretta e la misi tra le labbra. Stavo per accenderla quando Freddie si avvicinò, afferrando delicatamente l'accendino dalle mie dita.
"Posso?" chiese piano, e prima che potessi rispondere, fece scattare la fiamma. Il fuoco danzò per un istante, proiettando ombre sulle sue guance, mentre mi avvicinavo lentamente e accendevo la sigaretta.
Inspirai profondamente, lasciando che il fumo mi bruciasse leggermente i polmoni, poi espirai con un sospiro.
Freddie mi osservava in silenzio, la testa inclinata. "Devi rilassarti. Non è che se qualcuno ti descrive in una canzone, diventi automaticamente una regina assassina."
"Non è questo," borbottai, tirando un'altra boccata. "È solo... è molto. Tutto questo, l'album, noi. Non me l'aspettavo."
"Non ti aspettavi di lasciare un segno?" mi chiese piano. Scossi la testa, fissando il bagliore rosso della sigaretta nel buio.
"No, non così. E non con te." Mi girai verso di lui, cercando di mettere a fuoco il suo viso nell'oscurità. "Tu sei... un'icona. E io sono solo..."
"Solo cosa?" mi interruppe Freddie, la voce bassa e leggermente irritata."
Freddie mi fissava con attenzione, le mani che giocavano nervosamente con il pacchetto di sigarette vuoto. C'era una luce particolare nei suoi occhi scuri, un misto di curiosità e qualcos'altro, forse preoccupazione, forse... affetto. Non distolse lo sguardo neanche per un secondo, il silenzio tra di noi riempito solo dal crepitio lontano del camino.
"Sei... un'enigma, sai?" disse infine, con un tono più morbido e riflessivo di quanto mi aspettassi. "Hai questa... durezza, come se fossi fatta di acciaio temprato. Ma poi, a volte, c'è qualcosa di fragile sotto... che lasci intravedere solo per un istante. Una tristezza, quasi." Mi guardò ancora più intensamente, come se volesse leggermi dentro. "E non capisco cosa possa averti resa così... complessa, così... forte."
"Freddie..." mormorai, distogliendo lo sguardo.
"Sei molto di più di quello che dimostri di essere, e riesci a farlo con una grazia che pochi possiedono."
Mi fece un sorriso lieve, quasi triste. "È questo che vedo in te. Una donna che è più forte di quanto vuole che gli altri credano."
Mi girai lentamente verso di lui, sorpresa da quante cose riuscisse a vedere solo osservandomi, senza conoscere davvero la mia storia. Era vero, non sapeva nulla del mio passato, non sapeva del dolore che mi aveva segnata anni prima. Eppure riusciva a percepirlo, a leggere tra le righe del mio comportamento.
"Freddie, io..." Mi mancavano le parole, sentivo solo il calore e la tenerezza delle sue osservazioni, e qualcosa dentro di me che si scioglieva, lasciando il posto a una sensazione di accettazione che non provavo da tempo.
Abbassai lo sguardo, imbarazzata. Non sapevo cosa dire.
Freddie restò in silenzio per un attimo, come se stesse decidendo se valesse la pena lasciar uscire quei ricordi.
Poi, respirò profondamente e parlò, la voce bassa, quasi un sussurro.
"Sai... anche io ho sofferto. Quando ero ragazzo, in India, mi sentivo... estraneo ovunque. Ero quel bambino strano. Il ragazzino coi denti troppo grandi e un nome troppo complicato da pronunciare. Mi chiamavano 'il mostro' a scuola. Si mettevano in cerchio attorno a me e ridevano... Ridevano di me."
Mi guardò negli occhi, e per un attimo la maschera di Freddie Mercury, quella scintillante e sicura di sé, cadde, lasciando intravedere Farrokh Bulsara, il bambino fragile e spaventato.
"Mi urlavano dietro per strada, mi spingevano, mi chiamavano 'l'inglese falso' perché non ero indiano e non ero inglese. Non ero niente per loro. A casa, i miei cercavano di proteggermi, di dirmi che ero speciale... ma sapevo che anche loro erano preoccupati. Preoccupati che fossi troppo diverso."
Si fermò, gli occhi persi nel vuoto.
"E i denti... oh Dio, quanto odiavo quei denti. Avrei voluto strapparmeli uno a uno. E le cose peggiorarono solo quando ci trasferimmo in Inghilterra. Pensavo che lì sarebbe stato diverso, che sarei stato accettato... ma invece... continuava. Venivo preso in giro per il mio accento, per la mia pelle. Ero... un outsider. Persino lì."
Lo vidi stringere le mani nervosamente, il corpo rigido.
"E poi... beh, crescendo, è diventato peggio. Le prese in giro non erano più solo sui denti o sull'aspetto. Erano sul modo in cui mi muovevo, come parlavo... su quello che non riuscivo a dire. Ho sempre saputo, Violet... fin da quando ero ragazzino... che qualcosa era diverso in me. E loro lo sapevano. Se ne accorgevano, come cani che annusano il sangue."
Non avevo mai sentito Freddie parlare così. Era come se stesse dissotterrando anni di dolore e umiliazioni.
"Mi spingevano contro gli armadietti a scuola, ridevano, mi mettevano in bocca dei fiori dicendo 'Oh, la nostra piccola regina ama i fiori, vero?'. Tutto perché ero... troppo delicato. Avevo paura anche solo di guardare qualcuno troppo a lungo, per non dargli una scusa per pestarmi. Ho imparato a costruire un muro di fronte a tutto ciò. Ma..." abbassò lo sguardo, il dolore chiaramente visibile sul suo volto, "non sono mai riuscito a costruire un muro abbastanza alto."
Si fermò e ridacchiò, un suono vuoto, che mi fece stringere il cuore. "La verità è che... sono ancora quel ragazzo spaventato. Anche ora. Pensi che io mi diverta a portare abiti esagerati, a truccarmi e a fare il buffone sul palco? Certo, lo faccio... ma è anche una protezione, una maschera. Qualcosa che... nasconde il fatto che non sono sicuro di chi sono, o di cosa dovrei essere. Di chi dovrei amare."
Fece un lungo respiro e mi guardò, come se stesse rivelando un segreto che non aveva mai detto ad anima viva. "La gente... pensa che io sia sicuro di me, che non abbia paura di niente. Ma la verità è che... sono terrorizzato, Violet. Tutti questi... sentimenti, tutte queste... pulsioni... a volte mi sento come se stessi per scoppiare. Come se non ci fosse abbastanza spazio dentro di me per contenerli. E non so mai cosa voglio veramente. Uomini, donne... Amore... Cos'è? Chi dovrei essere? Cos'è giusto?"
La sua voce si incrinò e distolse lo sguardo, passandosi una mano sui capelli. "Cerco di tenere tutto sotto controllo, di non pensarci troppo. Bevo, faccio festa, canto fino a perdere la voce. Ma poi... a volte... quando sono solo, e tutto il rumore si spegne... sento solo questo... vuoto. Questa paura che non andrà mai via."
Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Volevo dirgli qualcosa, offrirgli conforto, ma non trovavo le parole.
Lui sembrò accorgersene e rise.
"E non fraintendermi, non voglio la pietà di nessuno. Solo che... sono stanco di nascondermi. Stanco di fingere di essere questo... spettacolo ambulante senza paura. Anche le maschere si consumano, sai?"
Fece una pausa e poi, con un sorriso triste, mormorò: "La verità è che sono solo un ragazzo che si chiede se meriti di essere amato."
Quelle ultime parole mi colpirono come un pugno. Era così strano sentire Freddie Mercury, l'uomo che sul palco dominava folle intere con un solo sguardo, parlare di sé in quel modo. Lo raggiunsi e gli strinsi la mano. Le mie lacrime iniziarono a scendere.
Lui mi guardò, gli occhi lucidi ma fieri.
"Non ne sono così sicuro, darling. Forse un giorno capirò chi sono davvero... ma fino ad allora, continuerò a essere quello che tutti vogliono che io sia. Una... 'regina assassina', o qualcosa del genere."
Sorrise, quasi con ironia.
"Ecco, che ne pensi come titolo per una canzone? 'Killer Queen'. Una regina che nasconde i suoi segreti, che uccide con eleganza e non si fa mai prendere. Suona bene, no?"
Mi strappò un sorriso, nonostante tutto. "Suona perfetto, Freddie."
Sollevò lo sguardo su di me, e per la prima volta da quando avevamo iniziato quella conversazione, vidi qualcosa di vulnerabile, di inaspettato nei suoi occhi. Una scintilla di sorpresa e, forse, un po' di sollievo. Era come se quelle parole avessero raggiunto un punto che nessuno, fino a quel momento, aveva mai sfiorato.
In quel momento, sentii le lacrime pungermi gli occhi. Forse era il fumo, forse era solo tutto il peso di ciò che avevo tenuto dentro per troppo tempo.
"Freddie... anch'io... ho qualcosa da raccontarti, su di me..." mormorai, la voce che si incrinava.
Sentii la sua mano stringere appena la mia, quasi con timore di spingermi oltre, ma senza tirarsi indietro. Un invito silenzioso ad aprirmi.
Abbassai lo sguardo, il cuore che mi batteva furiosamente in petto.
"Ho perso la mia famiglia la notte di Natale," dissi piano, quasi con un filo di voce.
Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce in quel modo.
Le parole sembravano quasi estranee, come se parlassero di qualcun altro.
"I miei genitori e mio fratello... Sono morti in un incidente d'auto. Io ero solo una bambina, aspettavo a casa con in ansia perchè dovevamo festeggiare con una nostra stupida usanza. Dovevano tornare, ma..."
Mi interruppi, la gola stretta dall'emozione.
Sentii Freddie trattenere il fiato, il suo volto una maschera di dolore e comprensione.
"Oh, tesoro..." mormorò, le parole quasi un sussurro.
Riuscii a malapena a continuare, il peso di quei ricordi che mi schiacciava.
"Ero rimasta sola. Completamente sola. Sono finita a casa della mia migliore amica, i suoi genitori mi hanno accolto... eppure... anche se ero circondata da persone, mi sentivo persa. Come se... il mondo intero mi fosse crollato addosso e io fossi rimasta intrappolata sotto le macerie."
Freddie mi guardava con un'intensità che non avevo mai visto in lui.
Non c'era più traccia del performer, dell'uomo sempre pronto a buttarla sul ridere.
Era solo un'anima che ascoltava un'altra anima, senza giudizio, senza parole inutili.
"Non ho mai parlato a nessuno di quanto mi sentissi sola," sussurrai, la voce spezzata.
Sentivo le lacrime scorrere lungo le guance, ma non mi importava. Per la prima volta, le parole fluivano libere. "Per anni ho finto che andasse tutto bene, che ero forte... ma dentro di me c'era solo... vuoto. Vuoto e dolore."
Freddie si chinò verso di me, e senza dire nulla, fece scivolare il braccio attorno alle mie spalle. Non fu un abbraccio completo, ma la sua presenza era calda, avvolgente. Una mano mi accarezzò piano la schiena, quasi temendo di rompermi.
"Non devi sentirti sola, tesoro," disse con un filo di voce, e sentii la sua voce incrinarsi, un suono così raro in lui che mi fece alzare lo sguardo.
I suoi occhi erano lucidi, un'emozione profonda che traspariva dietro quelle iridi intense.
"Non più. Non quando ci sono io... o qualcuno a cui importi davvero. E te lo giuro... mi importa. A tutti noi. Più di quanto tu possa immaginare."
Non seppi come rispondere. Ma vidi qualcosa di straordinario: una lacrima scendere piano lungo il suo volto. Freddie Mercury, colui che si ergeva orgogliosamente su qualsiasi palco, stava piangendo per me.
Un pianto silenzioso, contenuto, come se fosse qualcosa che non avesse concesso a se stesso da troppo tempo.
"Freddie..." mormorai, cercando di asciugargli le lacrime con le dita, ma lui scosse la testa e sorrise, un sorriso debole e fragile, che era un mondo lontano dai suoi soliti ghigni teatrali.
"Non preoccuparti," disse, la voce quasi rotta, "sei la prima persona a vedermi piangere in anni, darling. Anni."
Cercai di ridere, ma era un suono rotto, intriso di tutta l'emozione di quel momento.
"Davvero? E per cosa ho l'onore?"
Freddie sbatté le palpebre, tentando di riassumere un minimo di compostezza, e mi guardò con quel suo sguardo acuto, quasi fanciullesco.
"Perché... perché sì..."
Sentii il mio cuore sciogliersi, e strinsi la sua mano con forza.
Un lampo d'ironia attraversò i suoi occhi.
"Non preoccuparti per me. Io sono un vero campione nel fingere che vada tutto a meraviglia. E poi, io sono nato per soffrire con stile."
Alzò il mento, con quell'aria teatrale che mi fece sorridere.
Ridemmo piano, il suono delle nostre risate che si perdeva nel silenzio della notte.
Le lacrime si asciugarono e, per un momento, sembrava quasi che la stanza avesse ripreso a respirare con noi.
"Vedi? Stiamo già meglio," scherzò Freddie, passandosi la mano sul viso per asciugare le ultime tracce di pianto. "Ora, non fraintendermi, adoro tutto questo melodramma... ma preferirei non rovinare la mia reputazione da 'Queen della freddezza', eh?"
Sorrisi, annuendo piano. "Certo, non vorremmo certo che la tua aura da regina imperturbabile si incrinasse."
Lui mi guardò con quel suo sorriso enigmatico, un misto di affetto e tristezza.
"Proprio così. Ora, che ne dici di tornare su, prima che finiamo per scrivere un'intera opera tragica qui, tra fumo e lacrime?"
Ci alzammo insieme, e risalimmo lentamente le scale, lasciandoci alle spalle quella piccola stanza buia. Ma qualcosa tra noi era cambiato.
Forse, pensai mentre ci fermavamo davanti alle rispettive porte, era questo il vero potere: la capacità di mostrarsi deboli senza paura di essere giudicati. La capacità di scoprire il proprio cuore a qualcun altro e di essere accettati, nonostante tutto.
"Buonanotte, Killer Queen," disse Freddie, dandomi un piccolo bacio sulla fronte. "Sogni leggeri e senza drammi, d'accordo?"
"Lo stesso per te, Freddie," mormorai, sorridendo piano.
Lui fece un piccolo inchino teatrale, tornando a essere, per un attimo, il Freddie Mercury che tutti conoscevano. Ma i suoi occhi dicevano altro. Sapevamo entrambi cosa ci eravamo detti quella notte.
Forse, dopo tutto, non ero così sola come pensavo.Entrai in camera mia, richiudendo piano la porta. Brian era ancora lì, addormentato di traverso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino come una corona disordinata. Lo guardai per un istante, una strana tenerezza che mi riempiva il petto. Avevo passato così tanto tempo a cercare di capire cosa volessi davvero, chi fossi. E in quella casa, con quegli uomini stravaganti e incredibili, mi ero trovata a scoprire parti di me che non sapevo nemmeno esistessero.
Mi avvicinai al letto e mi infilai piano sotto le coperte, cercando di non svegliarlo. Ma lui si mosse, girandosi su un fianco e mormorando qualcosa nel sonno. Mi sistemai accanto a lui, sentendo il suo calore attraverso il tessuto della maglietta.
"Eri uscita?" sussurrò piano, la voce impastata.
"Sì," mormorai, sfiorando i suoi capelli con le dita.
"Stavo solo... pensando."
Brian sospirò, allungando un braccio per avvolgermi la vita e tirarmi più vicino.
"Non pensare troppo," mormorò, con quel tono pigro che usava sempre quando era sul punto di riaddormentarsi. "Domani... tutto cambia."
Lo guardai, il viso rilassato e quasi infantile nella penombra.
"Sì... domani tutto cambia."
Le mie parole erano un sussurro appena udibile.
Chiusi gli occhi, cercando di trovare pace accanto a lui. Non ero più sicura di cosa sarebbe successo l'indomani, di come avrei affrontato il distacco. Sapevo solo che quella notte doveva contare, doveva restare nei nostri ricordi, come un momento di verità e di comprensione.
Alla fine, scivolai nel sonno, con il braccio di Brian che mi avvolgeva e un nodo nel petto che si scioglieva lentamente.
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"I've always looked for you"-Brian May
FanfictionViolet é una ragazza Londinese dal passato travagliato, nata nel dicembre del 49 e lavora da qualche anno in una modesta biblioteca della città. È proprio sul posto di lavoro che incontrerà le persone che le travolgeranno completamente la vita: un g...