Intermezzo

37 6 6
                                    

Intermezzo

Andrealphus aprì gli occhi in una camera da letto che sul momento non riconobbe. Gli ci volle un momento per ricordarsi che aveva passato la notte nella sua vecchia stanza, in casa di suo padre. Si sentiva stordito, le palpebre erano gonfie e pesanti e la testa gli scoppiava.

Si guardò intorno, era solo. Ovviamente. Nessuno sarebbe stato talmente stupido da farsi trovare lì al sorgere del sole.

Sperava solo che quel tizio... Oh...come si chiamava? Gli aveva chiesto il nome? Cazzo sono un disastro. Si massaggiò le palpebre con l'indice e il pollice. Insomma. Sperava solo che quel tizio, quel conte, fosse stato abbastanza discreto nel lasciare la sua stanza quella notte.

Si mise a sedere sul letto e una forte sensazione di nausea lo invase, sentì un sapore di anice invadergli la gola, accompagnato da un retrogusto amaro e pungente. Merda. Doveva vomitare.

Arrancò fino al bagno utilizzando ogni goccia di autocontrollo per non vomitare sui variopinti tappeti persiani.

Mentre stava riverso sulla tavoletta, come il più basso dei plebei, a riversare nel water bile e assenzio si chiedeva che cosa stesse facendo della sua vita. Che cosa fosse diventato. Non era Marchese, perché Marchese era ancora suo padre. Non era un Guardiano, perché quello era Stolas. I suoi stupidi poteri non gli servivano ad altro che a raffreddare i drink di tutti quei nobili repressi che doveva ubriacare per portarseli a letto. Non era salito di status, perché non aveva voluto sposare una qualunque delle insulse duchesse che gli avevano fatto la corte negli anni.

Ma poi, di chi era stata l'idea dell'assenzio quella notte? Ne odiava il sapore, ne odiava l'odore. E ora se ne sentiva invaso, anche il suo sudore puzzava di quella roba immonda che bevevano solo i depressi e i poeti.

Non si ricordava niente. A stento riusciva a dipingere la faccia di quello con cui aveva passato la notte. Però si ricordava l'umiliazione del rimprovero di Stolas, un insulso diciottenne, che poteva permettersi di minacciarlo e di farsi chiamare "Vostra Altezza", di fargli chinare la testa come un suddito qualsiasi.

E si ricordava il brusio della folla nel vedere sua sorella vestita da puttana.

E la disapprovazione negli occhi di suo padre. Perché la colpa poteva anche essere di Stella, ma responsabilità era sua.

Vomitò ancora. Sentì l'esofago bruciargli come avesse ingoiato benzina.
Forse avrebbe dovuto sposare davvero una di quelle duchesse. Lasciare che Stella rovinasse sé stessa e il suo matrimonio come meglio credeva, che suo padre si consumasse nella vecchiaia solitaria che si meritava fin troppo. Sarebbe stato semplice, stanze separate, una notte ogni tanto di sacrificio, un figlio o due da fare crescere ai maestri privati e a tutori scelti, e la sua unica responsabilità sarebbe stata essere un uomo normale, un padre moderatamente presente, un marito gentile.

Perché doveva essere il fratello (il consigliere?) della Principessa, quando poteva essere il marito di una duchessa, e dunque, a sua volta, un Duca?

Un colpo di tosse, un altro conato di vomito, la sua camicia azzurra completamente intrisa di sudore. La gola in fiamme, sulla lingua solo il sapore amaro dell'assenzio e dell'autocommiserazione.
Le tempie gli scoppiavano.

Era dipendente da Stella. Non poteva vivere senza di lei. Non poteva immaginare di rinunciare ai loro tè, ai loro litigi, alle loro colazioni della domenica. La odiava, lo infastidiva il suo comportamento volubile e scostante. E la amava perché lo faceva sentire utile, perché lo faceva sentire potente, perché era l'unica persona che gli dava ascolto, su cui aveva potere. E perché era l'unica persona che, in qualche modo, avesse mai ricambiato il suo affetto.

STORIA DI UN MATRIMONIODove le storie prendono vita. Scoprilo ora