Guardarsi e non riconoscersi

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Guardarsi e non riconoscersi

Per un po' era successo spesso, nei momenti e nei luoghi più improbabili e inopportuni, in un tentativo di protrarre quella fuga.

C'era stata la volta un mattino presto, dopo un litigio iniziato chissà per cosa, sul divanetto della sala da tè.

E la volta, a tarda notte, quasi a sfregio, nel corridoio dei ritratti, sotto lo sguardo austero dei dipinti di famiglia.

"Non ci riesco, con i miei avi che mi fissano."
"E tu non guardarli, guarda me."

E ancora quella volta, nel giorno della cometa, nella torre dell'osservatorio, con Andrealphus che li cercava ovunque perché avrebbero dovuto fare un solenne discorso per l'evento e che alla fine - non avendoli trovati - aveva dovuto fare lui.

Oppure la volta nell'orangerie, completamente a caso, in pieno giorno.

"Ma, ci vedranno!"
"E allora? È l'unica cosa che vogliono da noi."

Poi, senza ragione apparente e forse troppo presto, era diventato un automatismo. Una risposta pavloviana alla presenza dell'altro. Un cercarsi nella notte, nella fase tra la veglia e il sonno, quando calavano le difese e le inibizioni. Bastavano due dita leggere che percorrevano la schiena, un bacio rubato nella penombra, o un casuale sfiorarsi delle mani ad innescare la scintilla.

Ma ormai non era più com'era stato quella volta sotto il cielo.

Lui ogni notte le si arrendeva più tardi, e a lei sembrava sempre più meccanico e forzato. Le sembrava di essere l'unica a fare tutto e l'unica ad averne bisogno. Lo sentiva altrove, con la testa e col cuore, come se rimuginasse costantemente su qualcosa, e come se non cambiasse nulla che lei fosse o meno lì.

Così dapprima era successo spesso, poi solo qualche volta, finché non era successo più.

Ed era diventato tutto un girarsi dall'altra parte al tocco di lei.

Uno "scusami, sono molto stanco."

O ancora un tentativo iniziato e fallito prima ancora di arrivare a stare insieme, con il silenzioso imbarazzo in cui lei si girava di fianco e lui restava sdraiato sulla schiena.

E ancora, nel buio, l'echeggiare di un mesto: "Stella non...non sto bene, stasera."

Fino al non provarci nemmeno più, per non subire l'umiliazione del rifiuto.

E così erano passati giorni. Settimane. Mesi.

***

Stolas sentì un bacio caldo alla base del collo. Le dita di lei ad accarezzargli la nuca. Il calore del suo corpo appoggiato alla sua schiena. "Stols..." un sussurro, un lamento.
Stolas chiuse gli occhi, provando a cedere alla sensazione, rievocò ogni piccola scintilla della notte dell'equinozio e ogni piccolo frammento di piacere delle volte passate ma, anche quella volta, non ci riuscì.

"Scusami. Devo... Devo studiare."

Le prese la mano con delicatezza e l'allontanò da lui, e poi si alzò lentamente, molto lentamente, dissimulando il più possibile il fatto che si trattasse di una fuga.

"Ci metterò tutta la notte. Non è necessario che mi aspetti sveglia."

Aveva detto morbido, con la voce di chi vuole fare una dolce concessione.

Si era allontanato, sempre a passi lenti e misurati, e aveva richiuso la porta della camera da letto dietro di sé. E solo allora aveva accelerato il passo ed era corso nel suo studio, colmo di imbarazzo e senso di inadeguatezza.

STORIA DI UN MATRIMONIODove le storie prendono vita. Scoprilo ora