W Winston W

36 7 12
                                    

Wade Winston Wilson.

Un nome pesante, carico di ricordi che avrebbe voluto cancellare per sempre. Winston, proprio come le sigarette che suo padre fumava incessantemente, spegnendole non solo nel portacenere, ma, con inquietante regolarità, sulla pelle di suo figlio. Wade si chiedeva spesso se quell'uomo avesse scelto quel nome proprio per questo motivo, ironico no?

Sembrava un gioco crudele di un destino già macchiato da brutalità.

Sua madre non era mai stata parte della sua vita. Forse, pensava Wade, lei aveva visto in anticipo il vuoto che la sua famiglia sarebbe diventata, e aveva scelto di fuggire prima di esserne risucchiata.

Se ne era andata senza voltarsi indietro, lasciandolo da solo con quell'uomo che avrebbe dovuto proteggerlo, ma che invece divenne la fonte di tutte le sue cicatrici.

Wade non aveva mai conosciuto il calore materno, il conforto di una carezza o la dolcezza di una voce che lo cullasse la notte. Per lui, l'infanzia era stata un interminabile incubo fatto di urla, alcol e violenza.

Ogni sera, suo padre rientrava a casa puzzando di whisky, con lo sguardo torvo e le mani già tremanti dalla sete dell'alcol che avrebbe continuato a bere fino a crollare.

Il crepitio dell'accendino che accendeva l'ennesima sigaretta era come il ticchettio di una bomba a orologeria.

Wade sapeva che, presto o tardi, sarebbe arrivato il momento in cui l'uomo avrebbe perso il controllo. A volte erano solo parole, cariche di odio e frustrazione; altre volte erano pugni, calci o la lama rovente di quella sigaretta, che veniva premuta sulla sua pelle giovane e indifesa.

Quelle notti sembravano non finire mai. Wade restava immobile, stringendo i denti e chiudendo gli occhi, come se, ignorando il dolore, potesse in qualche modo dissolversi, diventare invisibile, un fantasma. Ma il dolore rimaneva. Gli lasciava segni indelebili, non solo sul corpo, ma nell'anima. Ogni bruciatura, ogni livido, diventava parte di un puzzle sempre più intricato, fatto di solitudine, rabbia e disprezzo.

Forse è per questo che Wade era finito a fare il barman. Le notti che passava dietro al bancone lo tenevano occupato, lontano da quei ricordi. Preparare cocktail, ascoltare le chiacchiere dei clienti e offrire loro un rifugio temporaneo dal mondo esterno era una sorta di sollievo per lui. Gli dava la sensazione di essere in controllo, almeno per qualche ora. Ma, in fondo, era solo una maschera. Wade lo sapeva. Non poteva fuggire dal suo passato, non veramente. E quel bar, con i suoi alcolici e le sue luci soffuse, non era altro che un'altra prigione.

Ogni venerdì sera, una volta finito il turno, Wade rimaneva da solo, intrappolato tra le bottiglie di superalcolici e i suoi pensieri. Prima di andarsene, si scolava i rimasugli di quello che i clienti avevano lasciato nei bicchieri, mescolando liquori diversi in un cocktail tossico e amaro. Era un rito che conosceva fin troppo bene. Un gesto automatico, quasi obbligato. Beveva non per dimenticare, ma per anestetizzare. C'era qualcosa nell'alcol che smussava gli spigoli delle sue paure, anche se solo per qualche ora. E forse, in un certo senso, adesso capiva suo padre.

Ma quel venerdì notte, come tanti altri prima, l'alcol non era abbastanza. Mentre ingollava l'ultimo sorso di un cocktail improvvisato, si accorse che il vuoto dentro di lui era ancora lì, più grande e nero che mai. Si sentiva perso, come se ogni volta che cercava di scappare da se stesso, finisse solo per trovarsi più intrappolato. Chiuse gli occhi per un momento, lasciando che il sapore amaro del whisky gli bruciasse la gola, tentando di respingere i ricordi che riaffioravano sempre più intensi.

Ricordava il suono della pioggia che batteva contro i vetri della vecchia casa dove era cresciuto. Le notti in cui suo padre, ubriaco fradicio, urlava contro il nulla, agitando le mani come se potesse colpire i fantasmi dei suoi stessi fallimenti. Wade si rannicchiava in un angolo della sua stanza, cercando di essere piccolo, di scomparire. Le urla riempivano ogni spazio della casa, come un'eco che non poteva essere fermata. E quando alla fine il silenzio scendeva, non era mai un sollievo. Era solo la quiete prima della prossima tempesta.

Forse è per questo che ogni dannato sabato mattina, Wade si svegliava con un mal di testa pulsante e quella sensazione schiacciante di vuoto. Non si trattava solo dell'alcol ingerito la notte prima, ma della vita che stava vivendo. O, forse, della vita che non riusciva a vivere. Ogni volta che si guardava allo specchio, vedeva solo un uomo spezzato. Un uomo che aveva passato troppo tempo a cercare di mettere insieme i pezzi, senza mai riuscire davvero a rimettersi in piedi.

Quel sabato non fu diverso. Wade si svegliò sul divano, ancora vestito con i jeans e il giubbotto di pelle del giorno prima. La luce del mattino filtrava attraverso le tende sbiadite del suo appartamento, illuminando un disordine fatto di bottiglie vuote, vestiti sparsi e vecchie riviste. La testa gli pulsava, un dolore sordo che si irradiava dalle tempie fino alla nuca. Ogni muscolo del suo corpo sembrava gridare per la stanchezza, per l'abuso a cui lo aveva sottoposto.

Si alzò a fatica, barcollando verso la cucina dove prese un bicchiere d'acqua, sperando che potesse almeno alleviare la nausea che gli attanagliava lo stomaco. Ma non era solo il malessere fisico a tormentarlo. Era quella sensazione di vuoto, di solitudine assoluta, che non lo abbandonava mai. Wade si fermò davanti alla finestra, guardando fuori, ma senza vedere realmente. La vita continuava a scorrere intorno a lui, le persone andavano e venivano, e lui rimaneva fermo, intrappolato in una prigione che si era costruito con le proprie mani.

Forse, pensò Wade, era destinato a questo. Forse il suo destino era quello di vivere ai margini, di non trovare mai una vera pace. Di essere come quelle sigarette che suo padre fumava: consumato lentamente, fino a diventare cenere.

Fleeting Shadows // SpideypoolDove le storie prendono vita. Scoprilo ora