Non me ne vado

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Wade vomitava di nuovo, aggrappato al bordo del water come se fosse l'unica cosa che lo tenesse ancorato alla realtà. Il retrogusto amaro del vomito gli bruciava in gola, ma era l'ultimo dei suoi problemi. Il gelo penetrante gli avvolgeva il corpo, nonostante il bagno fosse saturo di vapore. Le mani tremavano senza sosta, e quando cercò di rialzarsi, le ginocchia gli cedettero, facendolo ricadere pesantemente a terra. Un gemito soffocato gli sfuggì dalle labbra, mentre la nausea non accennava a diminuire.

Si passò una mano sulla fronte, il sudore freddo gli scivolava lungo le tempie. Lo specchio rifletteva un'immagine che non riconosceva più. Wade aveva sempre evitato di guardarsi negli occhi, ma ora era impossibile. Il viso scavato, la pelle giallognola e tirata, e quegli occhi... vuoti. Sembravano quelli di un uomo a metà tra la vita e la morte.

"Che cazzo sei diventato, Wilson?" sussurrò con voce rauca, spezzata dall'acido che gli aveva bruciato la gola. Anche la sua voce suonava estranea, come appartenesse a un altro, mentre lui era solo un guscio vuoto.

Appoggiò la testa al muro freddo, cercando un minimo di sollievo, ma ogni respiro era un peso e ogni minuto una tortura.

Ancora una notte passata a bere da solo, annegando i rimorsi nell'alcol, che ormai non aveva più l'effetto di un anestetico. Era rimasto solo il vuoto.

Barcollando, si sollevò e si aggrappò al lavandino, sentendo la testa girare e temendo di svenire. Guardò di nuovo lo specchio: i suoi occhi spenti e infossati, il corpo scheletrico. Si passò le dita tra i capelli secchi e arruffati, rabbrividendo. Era come toccare qualcosa di morto.

Maledicendo sottovoce, si trascinò fuori dal bagno. L'appartamento era un disastro, il riflesso perfetto della sua vita: mozziconi di sigarette spente sul pavimento, vestiti sparsi ovunque, bottiglie vuote. Nulla aveva senso, tranne una cosa.

Il giacchetto.

Era l'unico oggetto che Wade trattava con cura. Era quello che Peter gli aveva prestato qualche giorno prima, quando si erano incrociati per caso a Central Park. Non erano amici, non si conoscevano davvero, ma c'era stata una strana intesa in quel momento. Forse, per la prima volta, Wade si era sentito visto.

Afferrò il giacchetto piegato con cura su una sedia, lo sfiorò lentamente, quasi con reverenza. Quell'atto di gentilezza, in un mondo che crollava attorno a lui, aveva significato più di quanto volesse ammettere.

Riposò il giacchetto e si preparò a uscire. Aveva bisogno di sigarette, e doveva prenderle subito, prima che l'idea di bere di nuovo prendesse il sopravvento. Barcollò fuori di casa, i vestiti troppo larghi sul suo corpo. La strada era fredda, ma Wade non lo sentiva. Il tremore incessante lo accompagnava, mentre ogni passo sembrava più difficile del precedente. Raggiunse il distributore automatico e infilò la tessera nella fessura.

Ed è lì che lo sentì.

"Wade...?"

Quella voce lo paralizzò per un istante. Il cuore gli batté all'impazzata. Lentamente, esitante, si girò e vide Peter. Era lì, con un'espressione tra il sorpreso e il preoccupato.

Parker lo fissava, incapace di nascondere lo shock. Wade era irriconoscibile. Magro, consumato, il volto scavato e la pelle pallida gli davano l'aspetto di un uomo che aveva perso ogni battaglia. Ma erano i suoi occhi, spenti, che colpirono Peter più di tutto.

"Wade?" ripeté Peter, la voce incerta.

Wade lo guardò, cercando di mascherare lo shock e la vergogna. "Parker..." rispose, la voce bassa e rauca. Non si aspettava di vederlo, e meno che mai di essere visto così. Si passò una mano tra i capelli, un gesto nervoso che accentuava il suo disagio.

Fleeting Shadows // SpideypoolDove le storie prendono vita. Scoprilo ora