Capitolo 20

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Capitolo 20

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Capitolo 20


Stuart Anderson aveva trascorso l'intera giornata a passeggiare senza meta, ammaliato, quasi sottomesso, dal fascino della Grande Mela. Un suo compagno di scuola, molti anni prima – un giovane provinciale come lui – aveva avuto la fortuna di soggiornare a New York per una settimana e al ritorno l'aveva descritta come una meravigliosa esplosione di cultura e architettura. Stu, quel fatidico 3 novembre, non poté che concordare.

A pranzo aveva mangiato un semplice hot dog accompagnato da una tiepida birra bionda, acquistata per strada, ma era così felice da non sentir­si nemmeno affamato. Aveva così vagato da una vetrina all'altra, esami­nando con avidità i souvenir caratteristici e banali, le testate giornalistiche, i chilometrici menù esposti agli occhi dei passanti. Per due volte, in quella zona di confine tra Chinatown e Little Italy, si era addirittura fermato a spulciare, con occhi grandi e curiosi, esposizioni di gioielli – orpelli per cui non aveva mai provato alcun interesse – interrogandosi sul­l'autenticità del metallo e delle pietre che, sotto le luci studiate e orientate con attenzione, rilucevano come se fossero state le gemme più pure mai inca­stonate.

Aveva camminato per ore e, adesso che il sole era tramontato da alme­no un giro di orologio e si era alzato un venticello teso e pungente, Stu sop­pesò la possibilità di degustare un caffè. Lì, a cavallo tra Little Italy e Nolita i punti di ristoro non mancavano di certo, ma Stuart preferì optare per un piccolo bar, incastrato tra un negozio di bigiotteria e uno di abbigliamento casual. L'insegna, un rettangolo di latta color zafferano, lasciava troneggia­re la scritta nera e grassa Dino's. Semplice e poco pretenzioso.

Entrando, Stu scoprì che l'interno rispecchiava alla perfezione l'immagi­ne proposta dal fuori. Il locale consisteva in quattro tavolini accatastati contro la parete intonacata alcuni anni prima e un bancone laminato di metallo, pulito ma rigato. Oltre a lui altre quattro persone avevano fatto sosta in quel ritrovo e, considerando il loro comportamento e il loro chiacchiericcio, parevano clienti abituali.

Stuart richiuse la porta dietro di sé e si sedette su uno sgabello. Il bari­sta lanciò un'occhiata in tralice a uno degli avventori, il quale sporse all'e­terno il labbro inferiore, fece spallucce e riprese a bere pigramente la pro­pria birra.

«Desidera?» Il tono era ruvido e allo stesso tempo cortese. L'accento italiano era marcato, quasi ostentato.

«Vorrei soltanto un caffè.»

Il cameriere, un ragazzo che non sembrava avere più di trent'anni, dai capelli corti, ricci e scuri, grugnì d'assenso, porse una tazza a Stuart e gliela riempì. Il ragazzo ringraziò e cominciò a sorseggiare il caffè nero e caldo, slacciando un poco il giubbotto. Dietro le sue spalle, gli altri clienti borbottavano e ridevano, parlando di sport, politica e donne.

Stu puntellò il gomito sul bancone e posò la testa nell'incavo della mano. Cominciava a es­sere stanco e si rese conto solo in quel momento che per tutta la giornata non aveva neanche preso in considerazione l'idea di affaccendarsi per trovare un giaciglio comodo dove passare la notte. Lanciò uno sguardo al­l'orologio – quello stesso orologio che gli aveva regalato Gloria appena una decina di giorni prima, così distanti e sfocati nella sua mente – e decretò di possedere ancora tutto il tempo per ovviare a quella dimenticanza.

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