Capitolo 24
Stuart aveva salutato Nola quella stessa mattina. L'aveva abbracciata e le aveva augurato tutto il meglio della vita. La ragazza aveva contraccambiato con evidente delusione e gli aveva lasciato una strisciolina di carta sgualcita, con su scritto il proprio numero di telefono. Stu aveva ringraziato e non aveva contraccambiato; Nola si era avviata con espressione scontenta. Non appena la ragazza se n'era andata, Stuart aveva gettato il foglietto nel bidone dell'immondizia della hall.
Aveva trascorso i restanti due giorni gironzolando da solo per Brooklyn, o meglio per Williamsburg. Durante il giorno si era nutrito di negozi, palazzi e fiumane di gente, eccitato come un bambino durante la prima gita scolastica. Si era lasciato sopraffare dall'enormità del quartiere, dai suoi palazzi immensi, dai suoi murales, da un pot-pourri di stili e pensieri, dove ricchezza e decadenza si sposavano con logica e dignità.
Alla sera, dopo aver cenato, andava da Tradesman. Non aveva più incontrato Nola né si era più ubriacato.
Il mercoledì mattina si era svegliato di buon'ora, si era stiracchiato e si era ripromesso di rimboccarsi le maniche: avrebbe cominciato a darsi da fare con serietà e metodo per realizzarsi. Quel giorno avrebbe compiuto il secondo grande passo verso la sua nuova vita nella Grande Mela.
Stuart aveva saldato il conto dell'albergo e aveva raggiunto, di buona lena, Dekalb Ave, dov'era sito il New York City Job Center, un grande edificio più largo che alto, interamente costruito in mattoni rossi. Dalle grandi finestre colavano macchie scure di umidità pregressa e poco distante dall'entrata era ammonticchiato un ammasso di sacchetti neri della spazzatura. Stu si chiese, inorridito, quale fetore aleggiasse in estate.
Entrando, si era munito del numero ed era rimasto coraggiosamente in coda per quasi due ore. Aveva spulciato la bacheca delle offerte di lavoro, non trovando però proposte adatte a lui.
Seduto sulla panca, in attesa del proprio turno, aveva sbirciato di nascosto le persone che affollavano la struttura. Erano newyorchesi mesciuti a immigrati, gente disperata e individui distinti – almeno in apparenza – tutte quante con le loro brave speranze nelle tasche. Si chiese in cosa differissero da lui e si rispose che erano tutti quanti sulla stessa barca fallata: ognuno era lì con una valigia piena di sogni e i pugni carichi del desiderio di riscatto. In un istante concepì l'idea che Brooklyn non fosse poi così diverso da New Houlka. Ma fu solo per un momento, poi il tabellone scattò con uno stridio acuto e il suo numero comparve, lampeggiante, sul display nero a caratteri rossi.
Un uomo sulla cinquantina, dai capelli radi e imbiancati, lo accolse. Ascoltò le richieste di Stuart, la sua spiegazione sulla propria presenza in quella grande città, la sua totale disponibilità a qualsiasi lavoro con qualunque contratto. Il funzionario governativo gli consegnò alcuni moduli. Cominciò frattanto a digitare sul computer, sotto dettatura del ragazzo, inserendo i dati anagrafici. Si disse dispiaciuto, ma in quel momento non v'erano posizioni disponibili alla sua persona. Stu si fece scuro in volto e ringraziò, porgendola mano. L'impiegato l'aveva guardato da sopra le lenti a mezzaluna e non aveva lasciato la stretta.
«Provi a dare un'occhiata per le strade: forse qualche lavoretto a tempo perso riesce a trovarlo» gli aveva sussurrato a bassa voce, prima di proseguire in tono professionale: «Le consiglio di recarsi qui tuttele settimane per consultare la bacheca. Arrivederci.»
Stuart indietreggiò e rimase stupito da quello slancio inaspettato di umanità. Non che credesse che i dipendenti della Grande Mela fossero automi privi di scrupoli e sentimenti, ma nemmeno si attendeva quel suggerimento, così contrastante con la lotta al lavoro nero di cui New York si faceva portavoce. Uscendo, salutò l'impiegato sollevando la mano a mezz'aria.
L'uomo si accigliò, chiedendosi perché mai avesse elargito una simile perla di malata saggezza. Era colpa di quel ragazzo, si disse, così giovane e fuori luogo nonostante l'aspetto; erano stati i suoi modi, gentili e sottomessi assieme a spingerlo verso quella possibilità. Quando ricevette il suo saluto contraccambiò e rifletté che, in fondo, erano stati gli occhi a farlo capitolare. Erano troppo grandi, troppo scuri e soprattutto troppo tristi.
L'impiegato scosse la testa e fece scattare un nuovo numero sul display, dimenticando all'istante tutte le proprie elucubrazioni.
Stuart, una volta in strada, piegò con accortezza i moduli e li ficcò a forza nel portafoglio. La settimana successiva sarebbe andato di certo a controllare la bacheca delle offerte lavorative, ma frattanto avrebbe tenuto gli occhi ben aperti in cerca di qualche incarico modesto.
Proprio innanzi al centro per l'impiego, Stu incrociò l'insegna del Franklin Dekalb Liquors. In vetrina risaltava la scritta di un'offerta speciale sullo whisky. Rifletté, controllò le banconote nel proprio portafoglio ed entrò, acquistando due bottiglie quasi al prezzo di una.
Quell'acquisto non avrebbe risolto i suoi problemi, ma gli avrebbe di certo tenuto compagnia durante le notti solitarie.
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Buongiorno, amici!
Come sempre, spero che la storia vi continui a piacere!
Tra qualche giorno posto il seguito.
Vi mando un abbraccio fortissimo. Tanto amore. ♡
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Figlio dell'amore e dell'odio
Ficción GeneralStuart Anderson vive a New Houlka, una piccola città del Mississippi. È un ragazzo solitario, che soffre di depressione a causa del bullismo subito durante il periodo scolastico. Nonostante tutto, cerca comunque di occupare il giusto posto nella so...