(Parte 2 - Una Grande Mela, una grande bugia) Capitolo 16

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Parte II

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Parte II

Una Grande Mela, una grande bugia

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Capitolo 16


Stuart Anderson si era tuffato a nord, al volante della sua vec­chia Pontiac Bonneville della metà degli anni Ottanta. Appena la propria casa – o meglio la casa dei coniugi Anderson – era sparita dallo specchietto retrovisore, Stu aveva voltato in direzione del supermercato nel quale aveva lavorato sino a poco tempo prima. Aveva posteggiato l'auto in un parcheggio riservato alle merci ed era entrato di gran carriera. Un'occhiata preliminare gli aveva as­sicurato che né Ester Galvin né Gloria Smith fossero nei paraggi: rassere­nato, si era avvicinato ad Albert Boyd, un ragazzo di trentaquattro anni, mu­latto, che prestava servizio al supermarket come cassiere. Stu l'aveva salu­tato con rapidità egli aveva porto una piccola busta bianca, chiedendogli – o meglio ordinandogli – di consegnarla alla signora Galvin. Albert non ebbe il tempo di replicare che Stuart aveva già voltato di tacchi. Nella lettera indi­rizzata alle due donne – Ester e Gloria –spiegava concisamente la propria decisione di andarsene da New Houlka e le rin­graziava per la presenza e l'amicizia che gli avevano di­mostrato in tutto quel tempo.

Una volta in auto, Stu aveva deviato a est e quindi a settentrione, invo­gliato dai cartelli stradali che promettevano un arrivo piuttosto rapido a Na­shville. Ricordava di aver visitato la città molti anni prima, quando era sedicenne, e possedeva immagini splendide, quasi magiche, del Johnny Cash Museum. Era una struttura bassa, in mattoni rossi, con una scritta bianca e cubitale che attirava volgarmente l'attenzione di tutti i passanti. Stuart, assieme ai suoi genitori, aveva passato in rassegna un'infinita colle­zione di dischi, di lettere scritte a mano dall'artista stesso e anche abiti e chitarre, affascinato dalle storie riportate sulle targhette illustrative e sugli opuscoli, rigorosamente a pagamento e acquistabili in tutta comodità nel ne­gozio interno.

Stu si crogiolò in quei piacevoli ricordi, brandelli di un tempo in cui nulla andava bene, ma nemmeno così male come quegli ulti­mi, devastanti anni. La sua vita, lentamente, era collassata in un enorme buco nero di depressione e autocommiserazione. Mentre guidava a ve­locità sostenuta ma non eccessiva, considerò che aver abbandonato quel piccolo e triste paese fosse la scelta più saggia che avesse mai potuto compiere. Sollazzato dalle rievocazioni di momenti felici trascorsi con la propria famiglia – che amava e avrebbe amato in maniera condizionata sempre e comunque – a Nashville, decise di deviare proprio verso tale città.

Dopo sei ore, ancora non aveva raggiunto la destinazione prescelta. In­colonnato dietro una lunga fila di veicoli, sostava lungo la I-65 all'altezza di Brentwood. Aveva sentito, sporgendosi dal finestrino, motociclisti e autisti nervosi sostenere che un imbecille si era schiantato contro il guardrail, for­se per colpa della stanchezza o forse perché aveva forato due gomme: erano versioni così contrastanti che Stuart le ritenne automaticamente errate. Pensò a un malore o, con un più facilità, a un sorpasso troppo azzardato. Alzò la radio e si mise a riflettere.

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