capitolo 8

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Il giorno seguente, Pechino si risvegliò con una luce più vivida, quasi come se la città avesse respirato un po' più lentamente durante la notte, dopo le intense emozioni dei giorni precedenti. Il cielo, che per giorni era stato coperto da nuvole minacciose, sembrava finalmente aprirsi, e i raggi del sole scaldavano delicatamente le strade grigie.

Mi svegliai con la sensazione di aver vissuto una notte fuori dal tempo. La conversazione con Jannik aveva scosso qualcosa dentro di me, non solo per le parole che aveva pronunciato, ma per l'intensità con cui aveva aperto una porta che, fino a quel momento, aveva cercato di tenere chiusa. Oggi, mentre mi preparavo per affrontare il lavoro che mi attendeva, non potevo fare a meno di pensare che forse, in qualche modo, avevamo entrambi compiuto un piccolo passo verso una maggiore comprensione di noi stessi.

Mi sedetti al mio tavolo nell'hotel, il portatile di fronte a me, pronto a scrivere l'articolo che avrei dovuto consegnare. Ma le parole, ancora una volta, sembravano sfuggire. Non riuscivo a mettere ordine nei pensieri, e forse non dovevo farlo. Forse non dovevo scrivere un pezzo perfetto, ma piuttosto qualcosa che raccontasse il lato umano di Jannik, qualcosa che andasse oltre la superficie e le performance. Il vero campione non era quello che il pubblico vedeva sui campi da tennis, ma la persona che viveva dietro le telecamere, con le sue incertezze e la sua fragilità. Quella persona, quella che avevo conosciuto durante la nostra chiacchierata, era una storia che meritava di essere raccontata.

Decisi di scrivere un primo abbozzo, un racconto più intimo, che partiva da quella conversazione. Non avrei cercato di descrivere ogni dettaglio della sua carriera, ma avrei esplorato il lato umano del campione, il ragazzo che, come tutti, aveva paura di non essere abbastanza.

Nel pomeriggio, Jannik mi inviò un messaggio. Voleva sapere se avessi avuto il tempo di incontrarlo per un ultimo caffè prima della partenza. Mi sentivo stanca, ma la sua richiesta non mi sorprese. Non era solo una questione di cortesia; sembrava che entrambi sentissimo il bisogno di continuare la conversazione, di dare un senso a ciò che avevamo iniziato senza troppo pensare alle conseguenze. Accettai l'invito senza pensarci troppo.

Ci incontrammo in un piccolo caffè vicino all'hotel, in una zona che ancora conservava qualche traccia dell'antica Pechino, con le sue strade strette e i templi nascosti tra i grattacieli. Il caffè aveva un'atmosfera familiare, senza fronzoli, con una leggera melodia cinese che suonava in sottofondo.

Jannik arrivò poco dopo di me, vestito con un semplice giubbotto e jeans, più a suo agio rispetto alla sera precedente. Non era più il ragazzo che stava lottando per mantenere un'immagine perfetta, ma una persona che sembrava più leggera, quasi come se la conversazione di ieri gli avesse permesso di abbassare almeno per un po' quella barriera che aveva costruito nel tempo.

«Come va?» chiese, sorridendo in modo genuino, come se il fatto che fossi arrivata fosse un momento di piacere piuttosto che un obbligo.

«Va bene,» risposi, mentre mi sedevo di fronte a lui. «Sto cercando di sistemare le cose per l'articolo. Ma, per dirla tutta, è difficile.» «Immagino,» disse, appoggiandosi alla poltrona. «Non deve essere facile scrivere su qualcuno come me.»

«Non è che sia difficile scrivere su di te,» risposi, «è che sto cercando di raccontare qualcosa di più profondo, qualcosa che va oltre i risultati, oltre il tennis. È come cercare di capire chi sei davvero.»

Jannik fece una pausa, come se quelle parole gli avessero fatto pensare a qualcosa di più grande di quanto avesse immaginato. «A volte penso che nessuno si chieda davvero chi sono, oltre la racchetta. Ma forse è anche colpa mia. Ho sempre avuto paura che, se avessi mostrato davvero chi sono, qualcuno avrebbe smesso di credere in me.»

«Perché credi che le persone ti guardino solo come un tennista?» chiesi, curiosa. Lui sorrise, ma c'era una certa tristezza in quel sorriso. «Forse è perché sono sempre stato quello. Il ragazzo con la racchetta, quello che non può sbagliare. Quando tutti ti vedono come un simbolo di successo, è difficile pensare che possano vedere altro.» «Non è un peso troppo grande da portare?» gli chiesi, osservando la sua espressione. «Lo è,» ammise, abbassando lo sguardo. «Ma ho imparato a convivere con questa pressione. E non è facile, ma credo che la chiave sia trovare il giusto equilibrio. Non puoi essere sempre perfetto, né aspettarti che tutti ti vedano come tale.» Ci sedemmo in silenzio per un momento, come se entrambi stessimo assaporando le parole che avevamo appena scambiato. Poi, senza alcun preavviso, Jannik mi guardò e mi disse qualcosa che non mi aspettavo. «Tu riesci a vedere oltre. Vedi più di quanto io abbia mai visto in me stesso.» Le sue parole mi colpirono, e mi sentii stranamente onorata. Non era solo il riconoscimento di quello che avevo cercato di fare come giornalista, ma anche una sorta di apprezzamento per ciò che avevamo condiviso. Quella conversazione, quella notte, era stata più che un momento di svago. Era stato un piccolo atto di verità, qualcosa che, forse, Jannik non avrebbe mai dimenticato. «Grazie,» risposi semplicemente, «ma credo che ognuno di noi abbia bisogno di qualcuno che veda oltre. Anche tu lo fai per gli altri, Jannik.»
Lui sorrise, come se avesse appena capito qualcosa di importante. Un sorriso più rilassato, finalmente.

E così, in quel piccolo caffè di Pechino, con il suono lontano della città che continuava a fluire, non c'era più un giornalista e un tennista. C'erano solo due persone che si stavano prendendo il tempo per guardarsi veramente, senza il peso delle aspettative.

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