capitolo 5

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La conferenza era finita, ma la giornata non era ancora conclusa. Dopo il lungo pomeriggio di domande e risposte, c'era un cocktail informale organizzato dall'agenzia che si occupava di Jannik Sinner. Quella sera, l'atmosfera era più rilassata, meno formale. Mentre i giornalisti si aggiravano per la sala, scambiandosi impressioni e cercando di ottenere qualche dichiarazione extra, io mi ritrovai a fare due passi verso il lato opposto della stanza, lontano dal caos.

Mi sentivo come se avessi bisogno di un momento di respiro. Le parole di Jannik mi ronzavano in testa: "Chi sono veramente?" Non riuscivo a smettere di pensarci. In un mondo dove il successo è misurato in vittorie, medaglie, e titoli, lui sembrava cercare qualcosa di più. Ma cosa cercava, davvero? Cosa c'era dietro quella facciata composta e controllata?
Mentre riflettevo, vidi Jannik che si stava allontanando dal gruppo, appoggiato a una parete, in un angolo tranquillo della sala. Non sembrava voler attirare attenzione, eppure la sua presenza era difficile da ignorare. C'era qualcosa in lui che mi spingeva a voler capire di più, come se, dietro l'atleta che conoscevamo, ci fosse un ragazzo che nessuno conosceva davvero. Mi avvicinai, esitante. Non era mia abitudine disturbare qualcuno durante un momento di tranquillità, ma il mio istinto mi spingeva a fare una domanda, una di quelle che, se non fatta, avrebbe continuato a tormentarmi. «Jannik,» iniziai, cercando di mantenere un tono casuale, «ho sentito quello che hai detto oggi sulla tua carriera e sulla tua vita. Ma la vera domanda è: come ti senti tu, in questo momento della tua vita? Sei felice?»
Lui mi guardò un po' sorpreso, come se non si aspettasse una domanda così diretta, e per un attimo restò in silenzio. Si poteva vedere che stava riflettendo su cosa rispondere, come se quella fosse una domanda che, nella sua routine quotidiana, non si fosse mai posto. «Felice?» ripeté, con un sorriso quasi malinconico. «Non saprei. Alcuni giorni sì, alcuni giorni no. Forse dovrei esserlo, dopo tutto quello che ho raggiunto. Ma la verità è che il tennis è una lotta continua. Non c'è mai un attimo di pausa. Quando vinci, devi già pensare alla prossima partita, alla prossima sfida. Non è mai finita. E a volte mi chiedo se sto vivendo davvero, o se sto solo seguendo un copione.» Le sue parole mi fecero riflettere. Lo sport, quel mondo di vittorie e sconfitte, di allenamenti estenuanti e pressioni enormi, era più di quanto avessi mai immaginato. Jannik non parlava solo da tennista, ma da qualcuno che portava su di sé il peso di una carriera che, alla fine, non poteva nemmeno scegliere del tutto.
«Ma cosa ti piace fare quando non sei sul campo?»chiesi, spingendolo a parlare di sé come persona, non come campione. Lui ridacchiò, come se fosse una domanda a cui non aveva mai pensato davvero. «Non lo so, forse leggere, stare da solo, riflettere. Ma, onestamente, la mia vita è un po' tutta qui», disse, battendo leggermente la mano sul tavolo vicino. «Non so se so fare altro. Il tennis è ciò che so fare meglio.» In quel momento, vidi una parte di lui che non avevo mai immaginato. C'era una vulnerabilità che traspariva dalla sua voce, dalle sue parole. Era un ragazzo giovane, che aveva raggiunto tanto, ma che allo stesso tempo si sentiva sopraffatto dal peso delle aspettative. La sua carriera non gli lasciava spazio per vivere in modo semplice, per essere soltanto Jannik, senza la pressione della vittoria o della notorietà.«Sai,» continuò, abbassando la voce come se stesse rivelando un segreto:«la gente pensa che tutto sia facile, che il successo arrivi da solo. Ma io non credo che sia mai così. C'è sempre una parte di me che si sente come se dovesse dimostrare qualcosa, non solo agli altri, ma anche a me stesso. E a volte mi chiedo:"Ma cosa accadrà quando non ci sarò più, quando il tennis finirà?"» Lo guardai, sentendo un'improvvisa empatia per lui. La sua carriera, il suo percorso, erano seguiti da milioni di persone, ma nessuno sapeva davvero quanto fosse difficile per lui essere sempre sotto i riflettori, come se fosse stato intrappolato in un ruolo che non poteva mai abbandonare.«Non pensi che, alla fine, il tennis sia solo una parte di te?» gli chiesi. «La tua vita è fatta anche di altre cose, no?»Jannik fece una pausa, guardando fisso nel vuoto, come se stesse cercando una risposta che non fosse mai riuscito a trovare. Poi, finalmente, sorrise debolmente. «Forse hai ragione. Ma è difficile staccarsi quando è tutto ciò che conosci.»Mi resi conto che, in un certo senso, eravamo entrambi alla ricerca di qualcosa: io, una storia che andasse oltre la superficie; lui, una risposta che non sembrava mai arrivare. E, in fondo, forse eravamo entrambi un po' persi.
La conversazione si interruppe quando il suo manager si avvicinò, segnalando che era ora di partire. Jannik si alzò, ma prima di andarsene, mi lanciò uno sguardo che sembrava carico di significato. «Grazie,» disse, con un tono che suonava diverso dal solito. «Forse ci vediamo domani.»
Lo guardai allontanarsi, il cuore leggermente appesantito. Sapevo che la storia che avevo in mente stava prendendo forma, ma quella che avevo appena sentito, quella più personale, quella più autentica, sarebbe stata molto più difficile da raccontare. Forse, in fondo, non era una storia che avrei mai potuto scrivere completamente.

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