capitolo 13

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Quando Jannik uscì dalla caffetteria, il campanello sopra la porta suonò dolcemente, ma il suono sembrò quasi troppo forte, troppo invadente, per il silenzio che aveva preceduto la sua partenza. Rimasi lì, ancora immerso in quella calma che sembrava avere preso residenza dentro di me. Il tempo fuori dalla caffetteria stava riprendendo la sua solita corsa, ma dentro di me tutto sembrava sospeso, come se il momento che avevamo appena condiviso fosse una bolla che non volesse scoppiare.

Guardai il caffè, ormai freddo nel suo bicchiere. Un pensiero mi attraversò, come una scia leggera: *forse non è mai stato davvero importante il caffè*, ma la conversazione che avevamo avuto, il modo in cui avevamo parlato senza parlare, senza forzare le parole a entrare in spazi che non erano pronti per essere occupati.

Sospirai e, come per raccogliere i miei pensieri sparsi, afferrai la tazza. La portai lentamente alle labbra, ma il gusto era ormai amaro, come se anche lui avesse preso consapevolezza di quel momento. Lo posai di nuovo sul tavolo e mi alzai.

Il mio passo si fece più lento mentre attraversavo la sala semivuota. Il barista mi sorrise distrattamente, probabilmente più concentrato sulla musica in sottofondo che sulla mia presenza. Eppure, in quel sorriso c'era una sorta di connessione silenziosa anche con lui, con quel piccolo angolo del mondo che mi accoglieva sempre senza chiedere nulla in cambio.

Uscendo, l'aria fresca del tardo pomeriggio mi avvolse come una carezza. Le luci della città iniziavano a accendersi, ma il cielo aveva ancora quei toni sfumati che preannunciavano la sera. C'era qualcosa di meravigliosamente familiare in tutto questo, qualcosa che mi rassicurava: la città, la sua frenesia, il suo rumore, ma in fondo la consapevolezza che, come quel momento al caffè, anche la vita scorre in modo impercettibile, senza mai fermarsi, ma dando sempre a chi è pronto l'opportunità di fermarsi, almeno per un po'.

Camminai senza una meta precisa, solo seguendo il ritmo dei miei pensieri. La sensazione che qualcosa fosse cambiato restava vivida, eppure non c'era fretta di definirla. Mi resi conto che forse, per la prima volta in tanto tempo, non sentivo il bisogno di afferrare subito il futuro, di pianificarlo, di incastrarlo in uno spazio predefinito. Forse la cosa migliore era lasciarlo venire da sé, accoglierlo, senza domande. Senza paura.

Il mio telefono vibrò, interrompendo il mio flusso di pensieri. Un messaggio da Jannik.

*"Grazie per il tempo che mi hai dato oggi. Non mi è mai capitato di stare in un posto così a lungo senza sentire il bisogno di fare altro."*

Leggendo quelle parole, una sensazione di calore mi invase. Non avevo bisogno di rispondere subito, ma sapevo che lo avrei fatto, perché quel messaggio, in tutta la sua semplicità, risuonava con la stessa verità che avevamo condiviso al caffè.

Continuai a camminare, il cielo ormai tinto di blu scuro, e la città sotto di me sembrava meno imponente, quasi più accogliente. Ogni passo, ogni angolo che giravo sembrava un piccolo frammento di una storia che stavo cominciando a scrivere, senza bisogno di pensare a ogni singola parola. La storia si stava vivendo, senza piani, senza certezze. E forse, pensai, era proprio questo il bello: non sapere, eppure sentirsi così in pace con tutto.

Era una pace che non si spiegava con il razionale, ma che si sentiva dentro. Una pace che aveva preso forma in un silenzio condiviso, che ora, anche nel rumore della città, sembrava ancora lì, sospeso nell'aria.

In fondo, non avevamo bisogno di sapere cosa sarebbe successo dopo. Avevamo semplicemente avuto il coraggio di esserci, insieme, in quel preciso istante. E quel momento, pur restando sospeso nell'incertezza, aveva già il sapore di qualcosa che rimarrà.

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