capitolo 7

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La conversazione tra me e Jannik continuò ad ondeggiare tra momenti di silenzio e parole che sembravano più pesanti, ma anche più sincere di quanto ci aspettassimo. Ogni tanto, il rumore della città filtrava dalla vetrata del bar, come un eco distante che ricordava quanto il mondo là fuori fosse lontano da noi in quel momento. Eppure, sembrava che in quel piccolo angolo della hall dell'hotel, il tempo stesse scorrendo in modo diverso.
Quando la serata cominciò a spegnersi, con la luce ormai ridotta a un tenue bagliore tra le luci della città, Jannik mi guardò negli occhi e, senza preavviso, parlò ancora, ma stavolta con una domanda che non avevo visto arrivare.
«Ti va di fare una passeggiata?» chiese. La sua voce era calma, ma c'era qualcosa di diverso nel suo tono, come se avesse preso una decisione importante.
Fu un invito che mi sorprese, ma non ebbi nemmeno bisogno di pensarci troppo. La Pechino che avevo visto durante il giorno era una città di contrasti, un mix tra antico e moderno che, a quell'ora della sera, sembrava ancor più affascinante. Così, uscii insieme a lui dall'hotel, senza dire una parola, e ci avventurammo in una città che stava iniziando a scivolare nel buio.

I vicoli del centro sembravano più tranquilli ora. I mercati avevano chiuso, e i negozi avevano abbassato le serrande, lasciando il posto solo alle luci tremolanti dei lampioni e al rumore dei passi sulla strada. Camminammo per un po', senza fretta, senza un obiettivo preciso, fino a raggiungere una piccola piazza che non avevo mai visto prima, nascosta dietro una curva.
«Non so se ti sei mai chiesta,» disse Jannik, interrompendo il silenzio, «come sarebbe la vita se non dovessi essere sempre quello che tutti si aspettano. Se potessi semplicemente essere te stesso, senza dover rispondere alle aspettative di nessuno.»
Mi fermai per un attimo, guardando il suo volto illuminato dalla luce fioca di un lampione. Era una domanda che risuonava dentro di me, ma che non avevo mai pensato di fare ad alta voce. «A volte sì,»risposi, «a volte mi chiedo come sarebbe il mondo senza tutte queste etichette. Ma forse è proprio per questo che scriviamo. Per cercare di capire cosa c'è dietro.» Jannik fece un gesto vago con la mano, come se stesse cercando le parole giuste. «Ho sempre pensato che la gente mi vedesse come un atleta, come un tennista. Ma dentro, è come se non riuscissi mai a staccarmi da quella parte di me. Ogni volta che qualcuno mi guarda, mi chiedo se vedono davvero me, o se vedono solo la figura pubblica.»
Il suo sguardo sembrava perso, come se stesse cercando di afferrare qualcosa che gli sfuggiva da sempre. «A volte mi fa paura,» aggiunse, con una certa vulnerabilità nella voce, «sentire che gli altri ti vedono solo per quello che fai e non per quello che sei.» Capivo perfettamente quello che stava dicendo. Quel peso, quella maschera che si è costretti a portare, a volte è talmente pesante da diventare una seconda pelle. Ma, allo stesso tempo, era evidente che Jannik non fosse solo un ragazzo che cercava di fare qualcosa di diverso, ma che desiderava anche scoprire se stesso, senza la pressione degli occhi del mondo addosso. «Non è facile,» dissi, «trovare un equilibrio tra quello che il mondo vuole che tu sia e quello che tu vuoi essere veramente. Ma forse, più che cercare di fuggire dalla figura pubblica, è importante trovare un modo per integrarvi. Imparare a convivere con entrambe.»

Ci fermammo in mezzo alla piazza, ora completamente vuota. Il silenzio era quasi surreale, interrotto solo dai suoni lontani della città. Jannik si appoggiò contro un muro di mattoni, mentre io rimasi in piedi, con la sensazione che stessimo parlando di qualcosa di molto più grande, qualcosa che riguardava non solo lui, ma tutti noi, in qualche modo. «Mi piace parlare con te,» disse, senza sollevare lo sguardo. «Non mi capita spesso di farlo senza che ci sia una telecamera o qualcuno pronto a giudicare. Ma stasera... è diverso.»
Lo guardai, e capii che, in qualche modo, quella conversazione stava cambiando il nostro rapporto. Non ero più solo una giornalista in cerca di una storia. In quel momento, eravamo due persone che stavano cercando di capirsi, senza la protezione delle parole preconfezionate, senza i ruoli che ci eravamo abituati a recitare. «Anche a me,» risposi, sorridendo. «A volte, ci dimentichiamo che dietro ogni storia c'è una persona. E che quella persona ha sogni, paure e desideri, proprio come tutti noi.»
Rimanemmo lì per un po', camminando senza fretta, parlando di tutto e di nulla, come due vecchi amici che si ritrovano dopo anni di distanza. Non c'era più la sensazione di formalità o di distanza che avevo provato inizialmente. C'era solo una connessione, pura e semplice, che ci legava a quel momento, a quella città, a quella notte.

Quando il cielo cominciò a tingersi di un blu profondo, ci rendemmo conto che la serata stava volgendo al termine. Rientrammo in hotel in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Ma qualcosa era cambiato. Non so se fosse l'atmosfera di Pechino, o il fatto che avessimo parlato con tanta sincerità, ma in qualche modo avevamo trovato un piccolo angolo di pace, un momento di intimità che, in un mondo di riflettori e aspettative, sembrava un dono raro e prezioso. «Ci vediamo domani,» disse Jannik, mentre entrava nell'ascensore. «Grazie per avermi ascoltato.» Non risposi subito, ma quando l'ascensore si chiuse, un sorriso mi attraversò il volto. Era un sorriso che non aveva bisogno di parole.

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