Il giorno seguente, Pechino si presentò con un cielo grigio, minaccioso, ma senza pioggia. La città sembrava più tranquilla rispetto alla frenesia dei giorni precedenti, forse perché la maggior parte delle persone era già rientrata nelle proprie routine quotidiane. La conferenza era finita, ma io avevo ancora il compito di scrivere l'articolo che avrebbe dovuto raccogliere tutto il materiale e le impressioni raccolte nei giorni precedenti.
Mi sedetti al mio tavolo nell'hotel, con il portatile davanti a me, ma le parole non venivano come al solito. Il mio articolo avrebbe dovuto essere un resoconto perfetto di quanto accaduto, ma c'era qualcosa che mi impediva di concentrarmi. I pensieri si mescolavano, oscillando tra la figura pubblica di Jannik Sinner e quella privata, fragile, che mi aveva mostrato nei pochi momenti di sincerità. Non era un semplice atleta. La sua persona, quella che avevo visto dietro le luci dei riflettori, mi aveva lasciato qualcosa di diverso, un'impronta che non sapevo come descrivere senza tradirlo.
Alla fine, dopo aver passato ore a rivedere la stessa frase, decisi di mettermi in cammino per distrarmi un po' e cercare, forse, qualche spunto per il mio lavoro. La città di Pechino aveva un fascino tutto suo. Mi persi tra i vicoli del centro, dove i mercati si aprivano in piccole piazze, e le bancarelle vendevano ogni tipo di oggetto immaginabile. Ogni tanto mi fermavo a osservare le persone, cercando di capire se, come Jannik, anche loro portassero dentro una storia che nessuno conosceva.
Era quasi sera quando tornai in hotel. A quella luce di fine giornata, la città sembrava ancora più affascinante, quasi sospesa tra il passato e il futuro. Quando entrai nella hall, notai subito che c'era qualcosa di diverso nell'aria. Il mio cellulare vibrò, e vidi che avevo un messaggio. Era Jannik.
"Ci vediamo stasera per un drink? Se ti va."
Un invito che non mi aspettavo, ma che, in qualche modo, mi fece sorridere. Non era la solita interazione professionale. Mi chiesi se fosse un modo per rilassarsi un po', per parlare senza le telecamere e senza la pressione del pubblico. Avevo ancora in mente le sue parole della sera precedente, quelle sulla difficoltà di essere sempre sotto i riflettori. Eppure, non mi aspettavo che fosse lui a fare il primo passo.
Accettai.
Ci incontrammo nel bar dell'hotel, uno spazio intimo, con luci soffuse e una vista mozzafiato sulla città. Jannik era già seduto a un tavolo, con una birra davanti, e quando mi vide, mi sorrise. Il suo sorriso, questa volta, sembrava più naturale, meno forzato.
«Non pensavo che avresti accettato,» disse, mentre mi sedevo di fronte a lui. «Non è facile trovare qualcuno che voglia veramente parlare senza dover dire sempre le cose giuste.» Quella frase mi colpì, perché capivo perfettamente cosa intendesse. Nel mondo in cui viveva, ogni parola veniva pesata, ogni gesto giudicato. Ma ora, lì, a quel tavolo, sembrava finalmente poter essere solo un ragazzo che voleva passare una serata tranquilla. «Volevo parlarti, davvero,» risposi. «Non sono solo la giornalista che scrive l'articolo. È che, beh, ho visto un lato di te che non mi aspettavo.» Lui alzò un sopracciglio, incuriosito. «Cioè?»
«Ho visto quella parte di te che non è fatta solo di successi e medaglie. C'è anche la fatica, l'incertezza. La domanda che ti fai quando ti guardi allo specchio.» Jannik non disse nulla per un po', solo fissò il bicchiere, riflettendo su quanto avevo detto. Poi, lentamente, sollevò lo sguardo e, per la prima volta, sembrava davvero voler parlare.«Ho sempre avuto paura di non essere all'altezza. Non solo come tennista, ma anche come persona. Voglio essere qualcosa di più che un ragazzo con una racchetta in mano, ma quando mi sveglio ogni mattina, la prima cosa che vedo è il campo da tennis. E so che tutto ciò che faccio dipende da quanto sono bravo a colpire una palla.» La sua voce aveva un tono di rassegnazione, ma c'era anche una certa dolcezza in quella vulnerabilità che non avevo mai visto prima.
«Credo che tutti abbiano delle aspettative su di te,»dissi, prendendo un sorso della mia bevanda. «La gente ti guarda e ti vede come un campione, ma quello che nessuno sa è che anche tu hai le tue paure, le tue domande senza risposta.»
Jannik sorrise, ma era un sorriso diverso da quelli che gli avevo visto fare in pubblico. Era più intimo, come se avesse deciso di abbassare quella barriera che aveva sempre tenuto alta. «Sì,» disse piano, «la paura è un compagno costante. La paura di deludere. Ma anche la paura di non essere abbastanza per me stesso.»Mi resi conto che, per quanto fosse stato indistruttibile in campo, dentro di sé era una persona che viveva costantemente con la pressione di dover essere qualcosa che non aveva scelto, qualcosa che gli era stato imposto dal successo e dalle aspettative.
«Non devi essere sempre abbastanza per gli altri, Jannik,» dissi, improvvisamente. «Non è necessario. Devi solo essere abbastanza per te stesso.»Mi guardò, come se quelle parole fossero nuove per lui, come se non le avesse mai sentite prima. Un silenzio si distese tra di noi, e per qualche secondo, sembrò come se il mondo si fosse fermato. Poi, finalmente, Jannik parlò di nuovo, ma stavolta con un tono più rilassato, più sereno. «Grazie,» disse, sorridendo. «Mi fa piacere che tu lo dica. Non è facile credere che sia possibile.» Rimanemmo lì a parlare per un'altra ora, condividendo pensieri e storie, senza la pressione di dover essere sempre perfetti. Forse, in quel momento, avevamo trovato un po' di pace, entrambi. La città fuori sembrava ancora più lontana, e noi due, lì, in quel piccolo angolo di mondo, eravamo semplicemente due persone che cercavano di capire la loro strada.

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Oltre la rete
RomanceLa storia esplora non solo il mondo del tennis, ma anche la lotta tra la visibilità pubblica e il desiderio di una vita privata. Con il tempo, entrambi scopriranno che, a volte, è solo quando si abbassa la rete che si riesce a vedere oltre.