Il torneo si concluse con un'esplosione di applausi e fischi di felicità. Jannik Sinner aveva vinto, ancora una volta. Il suo trionfo era stato in qualche modo inevitabile, come se ogni passo, ogni colpo, fosse stato una conferma di un destino che sembrava già scritto. Ma c'era qualcosa di diverso nel modo in cui si ergeva, sorridendo ai giornalisti e al pubblico. Non c'era solo la soddisfazione di una vittoria sportiva. C'era anche un qualcosa di più profondo, una gratitudine sincera che sembrava rivolgersi a chi lo aveva seguito in silenzio, magari senza parole, ma con uno sguardo che si era fatto più intimo nei giorni precedenti.
Io, da parte mia, avevo fatto il mio lavoro. L'articolo era pronto, una riflessione sulla sua prestazione, su come avesse affrontato il torneo, su come ogni mossa fosse stata studiata con una precisione quasi chirurgica. Ma c'era di più, c'era quella sensazione che avevo provato le sere in cui ci trovavamo nel bar, qualcosa che non riuscivo più a ignorare. Così, nel mio pezzo, inserii anche un piccolo accenno al cambiamento che avevo percepito in lui, quella capacità di lasciarsi andare, di mostrarsi per ciò che era, oltre l'immagine pubblica. L'articolo venne pubblicato con successo. Le reazioni furono positive, ma quel che mi preoccupava più di tutto era la sensazione che il nostro legame, che aveva preso forma tra sguardi e parole non dette, non fosse qualcosa che si potesse semplicemente mettere da parte. Lo sentivo, lo sapevo: anche per Jannik quella vittoria aveva segnato un confine, ma allo stesso tempo aveva aperto una porta.
Nei giorni successivi, i messaggi tra noi non si fermarono. Non era nulla di eclatante, ma ogni parola sembrava avere un peso. Un semplice "come stai?" da parte sua, una risposta più lunga del solito da parte mia, una domanda sul suo prossimo impegno o sulla mia vita fuori dal lavoro. C'era una leggerezza nei nostri scambi, ma anche una tensione sottile che ci rendeva consapevoli che, sotto quella superficie, stava crescendo qualcosa di inaspettato.
Un giorno, mentre stavo tornando a casa dopo una lunga giornata di interviste e scrittura, ricevetti un messaggio da Jannik. Non era un semplice saluto, come al solito. Questa volta era più diretto:
"Sono nella tua città e ho pensato che, forse, sarebbe bello rivederci. Non parliamo di tennis, non parliamo di lavoro. Solo... un caffè, se ti va." Leggere quelle parole mi fece battere il cuore più forte. Mi chiedeva un momento senza pressioni, senza l'etichetta di "giornalista" o "campione". Solo noi, come due persone che si stavano conoscendo al di là delle aspettative. Risposi subito, cercando di non sembrare troppo entusiasta, ma dentro di me la curiosità e l'emozione erano forti. "Mi sembra un'ottima idea. Dove ci vediamo?"Ci ritrovammo in un piccolo caffè all'angolo di una strada tranquilla, lontano dal clamore degli stadi e dalle luci dei riflettori. Jannik era lì, già seduto, con una tazza di caffè tra le mani. Non c'era nulla di speciale nell'ambientazione, ma c'era qualcosa di straordinario nell'essere lì insieme, lontano dalla pressione delle telecamere e degli appuntamenti. Era come se stessimo scrivendo una nuova storia, senza parole. «Mi piace questo posto,» disse Jannik, guardando fuori dalla finestra. «Non ci sono folle, solo... silenzio.» «Sì,» risposi, sorridendo. «A volte, è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.» Ci guardammo per un attimo, e in quel silenzio c'era una complicità che non avevo mai sperimentato prima. Non era solo una pausa dalla routine, ma qualcosa che sentivo stesse prendendo forma, come un legame che andava al di là di ciò che avevamo detto.
«Ti sei goduto la vittoria?» chiesi, rompendo finalmente il silenzio. «Sì,» rispose con un sorriso. «Ma... è stato diverso questa volta. Non è stata solo una vittoria. È come se avessi capito qualcosa di più su di me.» Le sue parole mi colpirono, ma non volli spingere troppo. Sapevo che anche per lui quella conversazione stava prendendo una piega più personale. Non c'era più la formalità di prima, ma un bisogno di parlare di sé, di essere ascoltato. «Credo che a volte le vittorie non siano solo su un campo,» dissi, cercando di mettere in parole quello che sentivo. «Forse, a volte, sono su qualcosa che sta accadendo dentro di noi.»
Jannik annuì lentamente, come se avesse capito quello che non avevo detto. E in quel momento, tra il caffè che si faceva freddo e la luce soffusa che entrava dalla finestra, ci rendemmo conto che non era solo il tennis o il lavoro a legarci. C'era qualcosa di più profondo, una connessione che, anche se iniziata in silenzio, stava crescendo a ogni incontro.La conversazione proseguì, tra risate e parole che non avevano fretta di finire. Quello che iniziava come un semplice caffè si stava trasformando in qualcosa che non avrei potuto più ignorare. E forse, nemmeno lui.
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Oltre la rete
DragosteLa storia esplora non solo il mondo del tennis, ma anche la lotta tra la visibilità pubblica e il desiderio di una vita privata. Con il tempo, entrambi scopriranno che, a volte, è solo quando si abbassa la rete che si riesce a vedere oltre.